Pensioni, il grande bluff
L’intera opinione pubblica italiana, su varie questioni, oramai parla con un’unica voce, fra queste la necessità di sviluppare la previdenza complementare. Non c’è opinionista, politico, industriale ed economista che, debitamente interrogato, non la proponga ricordandoci che le nuove generazioni entrate nel mercato del lavoro percepiranno, dalla gestione previdenziale obbligatoria (ad. esempio l’Inps), un assegno pensionistico molto lontano dal loro ultimo stipendio (per pochi si raggiungerebbe il 50 per cento). In tale contesto, il secondo “pilastro” previdenziale, ignorando che nessun sistema sostenibile può restituire più di quanto abbia preventivamente raccolto, viene percepito e propagandato come una medicina, priva di controindicazioni, da somministrare per tutti i mali.
Ma i fondi pensione su cui si basa la previdenza integrativa e che sono alimentati dal TFR e/o da contributi volontari, sono la panacea per i giovani lavoratori? Io credo proprio di No.
Si consideri, infatti, un neo assunto trentenne, che lavori ininterrottamente fino ai 65 anni, con stipendio netto mensile di 1.500 euro e, a titolo esemplificativo, si assuma che il TFR maturato sia pari ad una mensilità l’anno e si escluda sia la rivalutazione monetaria, sia la variazione del potere d’acquisto. Fino ad ora, l’azienda tratteneva il TFR per tutta la vita lavorativa (35 anni), ed al termine di questa, restituiva al lavoratore in un’unica soluzione 52.500 euro (35 anni per 1.500). Povero lavoratore (avranno certamente pensato)! Al termine di una vita di sacrifici, trovandosi con questo gruzzoletto fra le mani, potrebbe cadere in malefiche tentazioni dissipatrici (magari l’anticipo per la casa di un figlio). Pertanto la classe dirigente del nostro paese, premurosa per il “figlio” trentenne, cosa gli consiglia? Gli consiglia (se non impone) di versare questo salario differito ad un gestore che, al compimento dei 65 anni, invece di dargli la somma in un’unica soluzione, gliela verserà a rate secondo un sistema probabilistico basato sull’aspettativa di vita. Tornando al nostro trentenne, e supponendo un’aspettativa di vita media pari ad 80 anni, questi riceverebbe un “vitalizio” di 292 euro al mese (il “montante” di 52.500 diviso per il numero di mesi attesi di vita residua). E dove sarebbe il beneficio? È vero che in termini matematici tale ragionamento sconta una serie innumerevoli di approssimazioni, ma è altrettanto vero che, per il solo fatto che esistano le spese di gestione, nessun ente potrà mai restituire quanto raccolto ed investito.
Viene, inoltre, sostenuto che i nostri trentenni, maturando una pensione inadeguata, dovranno costruirsi un sistema di previdenza integrativo privato; e ciò sarà ancora più valido per chi, più sfortunato, avrà una vita da precario. L’adesione ad una previdenza complementare, basata su versamenti volontari, considerata in maniera astratta appare un’ottima soluzione, ma applicata ai casi concreti, diviene difficilmente sostenibile: invero, per garantirsi un minimo ritorno economico, bisognerebbe versare ininterrottamente almeno 5.000 euro l’anno. Considerato, infine, che più basso è il reddito, maggiore sarà il bisogno di integrare la pensione principale, sorgono seri dubbi su come questi giovani (già alle prese con le rate del mutuo) faranno a sottrarre 5.000 l’anno dalle loro primarie necessità. E se anche lo facessero, quali conseguenze ci sarebbero sui consumi?
La questione previdenziale delle giovani generazioni poteva essere affrontata e risolta più di un decennio fa, ma si preferì istituzionalizzare una sperequazione generazionale. Nel 1995, infatti, quando apparve evidente che il sistema retributivo (in base al quale la pensione va calcolata sugli ultimi stipendi percepiti) non era oltremodo sostenibile, sotto il falso proclama dei diritti acquisiti, si decise di salvaguardare i privilegi (acquisiti). Si dovrebbe, quindi, avere l’onestà intellettuale di riconoscere che alcune generazioni (sicuramente quelle che nel 1995 avevano maturato 18 anni di contribuiti), percependo in pensione più di quanto abbiano versato, stanno godendo di un privilegio a svantaggio delle generazioni successive: difatti i contributi di chi oggi lavora, invece di essere accantonati, finanziano le pensioni correnti.
Per quanto traumatico, sarebbe stato lungimirante ma soprattutto equo, prevedere il passaggio al sistema contributivo per tutti; si decise altrimenti, ipotecando i contributi dei futuri pensionati.
Di Giovanni Esposito
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