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mercoledì 31 ottobre 2018

Come andare in pensione nel 2019


Come andare in pensione nel 2019

Come andare in pensione nel 2019


Il 2019 sarà un anno di profondo cambiamento per il sistema previdenziale italiano. Per questo motivo è bene informarsi sulle novità in arrivo così da avere un'idea chiara su come andare in pensione. I cambiamenti riguarderanno due fronti: da una parte sui requisiti per il pensionamento interverrà l'adeguamento con le aspettative di vita, rilevate dall'Istat, che porterà a un incremento di 5 mesi dell'età pensionabile.

Ad esempio, per la pensione di vecchiaia bisognerà aver compiuto 67 anni, mentre per quella anticipata il requisito contributivo aumenterà a 43 anni e 3 mesi (un anno in meno per le donne). D'altra parte, invece, interverrà la riforma delle pensioni con cui saranno introdotte due strade per il pensionamento anticipato: la Quota 100, che consentirà di andare in pensione a coloro che hanno maturato 38 anni di contributi (ma non prima del compimento dei 62 anni) e l'Opzione Donna, per cui, invece, serviranno 57 anni (58 anni per le autonome) di età - più gli adeguamenti con le aspettative di vita - e 35 anni di contributi per andare in pensione.


Prima dei 60 anni di età, quindi, si potrà andare in pensione con Opzione Donna oppure con la Quota 41 che anche nel 2019 sarà riservata ai soli lavoratori precoci, ai quali verrà consentito di accedere alla pensione con 41 anni e 5 mesi (per effetto dell’adeguamento con le aspettative di vita) di contributi. Una volta superati i 62 anni, quindi, si potrà andare in pensione anche con la nuova Quota 100, oppure con la pensione anticipata Inps. In quest'ultimo caso, ipotizzando che un lavoratore dall'età di 20 anni abbia mantenuto una carriera lavorativa stabile, si potrà andare in pensione a 63 anni e 3 mesi. A 64 anni, invece, si potrà optare per la pensione anticipata contributiva, qualora se ne soddisfino i requisiti, purché si abbiano almeno 20 anni di contributi. Infine, come anticipato, 67 anni è l’età giusta per accedere alla pensione di vecchiaia, per la quale nel contempo sono richiesti 20 anni di contributi. Chi ha lavorato, invece, per pochi anni dovrà attendere il compimento dei 71 anni per andare in pensione. Con l'opzione contributiva della pensione di vecchiaia, infatti, sono sufficienti 5 anni di contribuzione.

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lunedì 29 ottobre 2018

Renzi, alt a Landini leader Cgil

Renzi ma non hai ancora finito di rompere i coglioni ? Hai rovinato e distrutto tutto quello che hai potuto. Dove passi tu non ricresce più l' erba e adesso cosa vuoi da Landini ? Contro di lui non ce la farai. MATTEO STAI SERENO !!!



Renzi e i renziani del Pd ripetono che i giochi in Cgil non sono fatti e che la candidatura a leader di Maurizio Landini avanzata dalla segretaria uscente Camusso è tutt’altro che scontata. La Cgil, come tutta la sinistra, non gode di buona salute, ma con i suoi apparati, i suoi 5 milioni di iscritti, la sua ramificazione nei luoghi di lavoro e sul territorio nazionale conta nelle diatribe interne del Pd e dei cespugli vicini, pesa nel bilanciamento dei poteri locali e nazionali e incide nell’orientamento – anche elettorale – degli italiani. Dal dopoguerra, per decenni, la Cgil fungeva sostanzialmente da “cinghia di trasmissione” del Pci e anche da serbatoio di voti.



Poi, dopo la fine della prima Repubblica, il rapporto fra il sindacato e il partito si è via via stemperato fino a ribaltarsi, con la contrapposizione al Pd renziano e al governo Renzi, le bordate sulla legge Fornero, il jobs act, la “guerra” contro il referendum costituzionale, il disimpegno nelle elezioni del 4 marzo con aperture ai partiti considerati fino a poco tempo “nemici”, quali M5S e Lega. Renzi si era illuso di aver rottamato anche la Cgil e i suoi capi ex comunisti. La Cgil, invece, ha resistito, pur in difesa, preparando su più fronti il contrattacco, decisa adesso a riscattarsi proprio con Landini nuovo leader. Renzi sembra aver capito la lezione e cerca, forse in ritardo, di porvi rimedio entrando a gamba tesa, anzi tesissima, nelle questioni interne alla Confederazione che fu guidata da capi di grande statura e carisma quali i comunisti riformisti Di Vittorio, Lama, Trentin. L’obiettivo è chiaro: in un Pd comunque “a trazione” renziana non è pensabile lasciare il più forte sindacato italiano a “briglia sciolta”, tanto meno in un ruolo di contrapposizione al partito e alla sua leadership nonché sempre più vicina a non poche posizioni del governo giallo-verde, del M5S e della Lega di Salvini. Renzi vuole una Cgil cavallo di Troia contro l’attuale governo, un sindacato con alla testa un suo “emissario” e non un leader carismatico che decide e fa con la propria testa. Così, con i suoi, tende la trappola, anzi le trappole, per rendere la campagna congressuale della Cgil un campo minato, giocando ogni carta pur di fermare Landini, puntando sull’antagonista Vincenzo Colla, considerato un riformista moderato, non “nemico”. Entrambi, Landini e Colla sono emiliani e reggiani. Anche altri esponenti ex Pci del Pd e dintorni (Bersani, D’Alema&C) temono Landini leader, sempre guardinghi di chi viene da quella Fiom che già con la Flm si rese protagonista di fughe in avanti avversate da Lama e dallo stesso Berlinguer.

 Ecco perché il Pd e gli altri cespugli della sinistra tentano, ognuno per propri fini, di condizionare contenuti e leadership della compagna congressuale della Cgil in corso prima dell’assise nazionale conclusiva del 23-25 gennaio 2019. In questo quadro si inserisce il recente “fattaccio” di Reggio Emilia. Il voto segreto che l’altro ieri al congresso della Cgil della città emiliana ha silurato il segretario generale della Camera del lavoro Guido Mora è infatti un segnale politico che va oltre il sindacato e oltre il territorio provinciale coinvolgendo anchePd e sinistra a livello nazionale. Un militante ha affermato che la vicenda è di una tale gravità seconda solo ai tragici fatti del 7 luglio 1960. Non è solo una questione di peso organizzativo, anche se si tratta di una confederazione di oltre 110.000 iscritti. E non è questione (solo) personale legata a un segretario di lungo corso, per altro unico candidato designato. Il colpo di mano che nel segreto dell’urna ha “freddato” Mora è legato alla lotta congressuale per il ricambio del prossimo leader nazionale del maggiore sindacato italiano. Come già sopra scritto, Susanna Camusso ha indicato come prossimo leader Maurizio Landini, ex capo duro della Fiom, etichettato quale radical populista con pulsioni che una volta sarebbero state considerate estremiste e gruppettare. C’è già chi, per fargli un favore o un dispetto non si sa, chiama Landini il Salvini sindacale. Mora, il cui affossamento nel segreto dell’urna ricorda il metodo dei “101” che bruciarono la candidatura di Prodi affondando la segreteria di Bersani, ha affermato in assemblea composta per lo più da iscritti al Pd: “Ringrazio i farabutti che sono in assemblea generale. Buona fortuna, perché ne avete bisogno”.

Gira e rigira si torna ai compagni-fratelli-coltelli dove si mischiano questioni personali e di potere con questioni politiche. Mora e quelli come Mora – su su fino a Landini – sono scomodi perché contrari alla logica del sindacato subalterno al partito, favorevoli invece a una Cgil “soggetto politico” (autonomo da imprese, partiti, governi) al limite del sindacato-partito sul crinale del sempre aborrito pansindacalismo. Non solo. Anche il Pd è nel fuoco delle turbolenze interne avviandosi verso primarie e congresso. Una lotta senza esclusione di colpi, con le varie fazioni (renziani e anti renziani) in cerca di alleati e al contempo impegnati a individuare e stanare nemici ovunque collocati. La Cgil, per il suo peso organizzativo e politico, diventa così importante terreno di scontro partitico anche in vista delle prossime scadenze elettorali. Mora viene sacrificato per “garantire” il Pd reggiano ed emiliano in vista delle elezioni comunali, un messaggio per “rassicurare” il Pd nazionale in vista delle Europee di maggio. Un campanello d’allarme anche per Landini e per chi lo sostiene? Il colpaccio di Reggio Emilia ha fatto cadere le maschere dei congiurati rischiando di diventare un boomerang per i cospiratori. Un boomerang che può andare ben oltre i confini della città emiliana.

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venerdì 19 ottobre 2018

Creare posti di Lavoro Salvando il Clima

Secondo uno studio della Global Commission on the Economy and Climate, la transizione ecologica sarà benefica anche per l'economia e il lavoro


Secondo uno studio della Global Commission on the Economy and Climate,
 la transizione ecologica sarà benefica anche per l'economia e il lavoro.

 Basterebbe salvare il clima


Di Andrea Barolini

Che la transizione ecologica rappresenti un’opportunità di cambiamento e di crescita alternativa rispetto a quella dettata dal modello attuale è stato ribadito da università, istituti di ricerca, conferenze internazionali. Eppure in molti non sembrano ancora convinti dell’interesse non solo ambientale e climatico, ma anche economico del cambiamento.

Non lo sono i dirigenti delle major del petrolio o del carbone
 (il che non sorprende). Ma non lo sono neppure numerosi governi 
(probabilmente anche per via delle pressioni delle stesse lobby poco inclini a spendersi per il clima).

La lotta ai cambiamenti climatici più redditizia del business as usual
Un nuovo rapporto, pubblicato il 5 settembre, mostra – cifre alla mano – le enormi possibilità che la transizione apre al mondo intero. A redigerlo è stata la Global Commission on the Economy and Climate, organismo indipendente voluto da Regno Unito, Svezia, Indonesia, Norvegia, Corea del Sud, Colombia ed Etiopia. Il suo obiettivo è proprio di aiutare i governi a comprendere perché dovrebbero guardare al cambiamento eco-sostenibile come ad un volàno di crescita. Secondo i ricercatori della Commissione, la transizione potrebbe essere perfino più vantaggiosa del “business as usual”. 

Lo studio descrive sottolinea dapprima come il contesto sia ormai «in evoluzione». Gli esperti indicano che il picco nella domanda di carbone, petrolio e gas entro i prossimi 20 anni è «probabile». Nel primo caso, la richiesta potrebbe cominciare a scendere nel mondo già nei prossimi 5-10 anni. Ciò ha già portato ad un importante cambiamento nell’allocazione dei capitali nel settore dell’energia. Basti pensare all’alleanza firmata alla Cop 23 di Bonn da oltre 60 tra governi, imprese e altre organizzazioni.

«Evitabili 700mila morti premature dovute allo smog»
Di fronte a tele scenario, una “nuova” economia garantirebbe un “guadagno” cumulato di 26mila miliardi di dollari, rispetto al risultato atteso con il vecchio modello. Stima che è stata giudicata «prudente» dagli stessi autori. Inoltre, si potrebbero creare, entro il 2030, 65 milioni di posti di lavoro verdi. E si potrebbero evitare 700mila morti premature dovute all’inquinamento dell’aria entro i prossimi dodici anni.

Tutto ciò sarebbe raggiungibile su cinque settori: energia, città, trattamento delle acque, settori industriali, agricoltura e utilizzo del suolo. Il rapporto spiega infatti che la bonifica di 160 milioni di ettari di terre degradate potrebbe far guadagnare 84 miliardi di dollari all’anno. Solo per i popoli autoctoni della foresta amazzonica, si potrebbero generare «fino a 10mila dollari per ettaro in termini di vantaggi per il sistema». Inoltre, una riforma delle sovvenzioni e del prezzo del carbone assicurerebbe un aumento delle entrate pubbliche pari a 2.800 miliardi di dollari all’anno nel 2030. L’equivalente del Pil di un Paese come l’India.

Servono investimenti verdi e uno stop ai finanziamenti alle fossili
Ciò a condizione, però, che si operino delle scelte precise. La Commissione spiega che un prezzo delle emissioni di CO2 compreso tra 40 e 80 dollari dovrebbe essere fissato da tutte le grandi potenze economiche. E che ciò dovrebbe essere fatto entro il 2020. I finanziamenti pubblici alle energie fossili e alle agroindustrie inquinanti dovrebbero essere cancellati. Si dovrebbe inoltre obbligare imprese e investitori a comunicare gli impatti dei loro business sul clima.

Occorre inoltre lanciare un grande programma di sostegno alle infrastrutture sostenibili. Le banche per lo sviluppo, poi, dovrebbero raddoppiare gli investimenti verdi. E, entro il 2020, tutte le imprese dell’indice Fortune 500 dovrebbero presentare obiettivi aziendali in linea con l’Accordo di Parigi.

In materia idrica, «delle buone politiche potrebbero far aumentare il Pil del 6% in alcune regioni, di qui al 2050». E ciò «malgrado i cambiamenti climatici e la crescita demografica». Ma occorrono circa 114 miliardi di dollari all’anno, soprattutto nelle economie emergenti, per garantire l’accesso universale all’acqua potabile. Mentre nei settori dell’industria pesante e dei trasporti, l’introduzione di tecnologie migliori potrebbe ridurre i consumi di energia del 26% nei prossimi 25 anni. Il che garantirebbe un calo delle emissioni di CO2 del 32% nello stesso periodo.

Il messaggio, dunque, è che è tutto fattibile. E che ne vale anche la pena: dal punto di vista del clima, della salute, del benessere e dello sviluppo. A mancare è soltanto la volontà politica di avviare seriamente il cambiamento. Basti pensare che è dal 2009 che il mondo ha promesso di stanziare 100 miliardi di dollari all’anno per opere di difesa del clima. Cifra che è stata ribadita nell’Accordo di Parigi del 2015. Ma che, ad oggi, non è ancora mai stata stanziata.


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domenica 7 ottobre 2018

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