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sabato 16 novembre 2019

Veneto: 9 Miliardi di Tasse Evase

Il Veneto sembra costellato da imprenditori umili, il cui reddito medio (se in contabilità semplificata) risulta pari a 23.173 euro, ossia 1.800 euro annui in più rispetto alla media dei lavoratori dipendenti (per altro ridimensionata da una quota significativa di part-time, lavori a termine e stagionalità), tanto che viene da chiedersi che vantaggi possono esserci nell’aprire   un’impresa se il frutto è “così modesto”.


Una cifra enorme che pesa per l’8,5% sulla quota nazionale, in un territorio che produce il 9,3% del Pil italiano. L'allarme della Cgil regionale, che affronta il tema nell'attivo dei delegati convocato per il 6 giugno a Venezia, con Maurizio Landini

Nel Veneto si stimano oltre 9 miliardi di imposte evase: una cifra enorme che pesa per l’8.5% sulla quota di evasione nazionale in una regione che produce il 9,3% del Pil italiano. Nel "ricco" Veneto solo l’1,5% dei contribuenti Irpef dichiara un reddito superiore ai 100.000 euro e coloro che arrivano alla soglia di 75.000 (quella da cui si applica l’aliquota massima) raggiungono appena  il 3,3% del totale. Sono per la stragrande maggioranza dipendenti e pensionati (61%) cui seguono gli agricoltori (19%), i professionisti (14%) e gli imprenditori (6%). Insomma, in una regione che conta 470.000 lavoratori autonomi sono 44.000 in tutto quelli che dichiarano un reddito Irpef sopra i 75.000 euro (di cui 22.500 con redditi agrari), cui si aggiungono altri 16.500 redditi da partecipazione.

Il Veneto sembra costellato da imprenditori umili, il cui reddito medio (se in contabilità semplificata) risulta pari a 23.173 euro, ossia 1.800 euro annui in più rispetto alla media dei lavoratori dipendenti (per altro ridimensionata da una quota significativa di part-time, lavori a termine e stagionalità), tanto che viene da chiedersi che vantaggi possono esserci nell’aprire
 un’impresa se il frutto è “così modesto”.

Il tema lo pone la Cgil regionale che, proprio partendo dalla questione fiscale, affronterà in un attivo di 500 delegati convocato per il 6 giugno a Venezia (Stazione Marittima, Auditorium Terminal 103 – ore 9,30) con Maurizio Landini i temi dello sviluppo e dell’equità, in un Paese in cui la crescita delle disparità sociali costruisce barriere all’ espansione economica ed alla stessa democrazia.

Di qui la sfida per l’apertura di una nuova stagione sul fronte della lotta all’evasione e della politica fiscale con una rimodulazione dell’Irpef che abbassi la tassazione sui redditi da lavoro e da pensione in un’ottica di progressività. Bocciata la flat tax che, oltre a gravare pesantemente sul bilancio dello Stato, opererebbe un ulteriore squilibrio a scapito delle classi meno abbienti, con un aggravio per i redditi fino a 10.000 euro e vantaggi direttamente proporzionali al crescere della ricchezza. Secondo alcune proiezioni, il risparmio per chi percepisce 15.000 euro sarebbe pari allo 0,6% del reddito, ma salirebbe sino a raggiungere il 15,3% del reddito a quota 50.000 euro (passando per il  4,6% a 20.000 euro, 6,9% a 25.000 euro, e così via).

“Senza contare il fatto – aggiunge Christina Ferrari, segretario generale della Cgil del Veneto - che l’abolizione degli 80 euro colpirebbe ulteriormente il lavoro dipendente, che i redditi più bassi sarebbero doppiamente penalizzati dai tagli al welfare (sanità in testa) o dall’aumento dell’Iva e che verrebbero sottratte risorse preziosissime per il rilancio degli investimenti pubblici di cui c’è un bisogno estremo”.

L’economia italiana sta infatti subendo un’ulteriore fase di rallentamento e lo stesso Veneto - regione a forte vocazione manifatturiera - ha visto nel primo trimestre 2019 un ridimensionamento della crescita della produzione industriale (attestata al 1,5% contro il 3,2% di un anno fa), con la provincia di Vicenza (la più proiettata all’export) che addirittura va in negativo (-0,7%).

C’è dunque un guado da valicare. “Abbiamo alle spalle – dice Ferrari - una crisi ancora non pienamente superata ed il traino tutto legato alle esportazioni ci ha ridotto ad un ruolo gregario nei confronti del centro Europa, mentre la domanda interna è debole. Per questo serve una virata nella politica economica, uscendo dalla logica delle mance e dei condoni per mettere in campo un grande piano di investimenti finalizzato all’innovazione, alla qualità del lavoro, alle infrastrutture materiali e immateriali, alla qualità ambientale e alla messa in sicurezza del territorio. Ma ciò – aggiunge il segretario - significa guardare ad un grande “sistema paese” e l’idea di un’autonomia che veda il Veneto “sganciarsi” dal resto d’Italia e chiudersi in una nicchia è perdente. È interesse anche delle nostre imprese – conclude Ferrari - essere protagoniste di un progetto di politica espansiva che coinvolga l’intero paese, a cominciare dal Sud, per ricreare un sistema più solido che abbia quella forza d’urto per reggere una competizione che non fa sconti a nessuno”.



In tutto il Veneto sono 3 miliardi Evasi al Fisco:   lo rivela Fabbrica Padova, il centro studi di Confapi,   che analizza il fenomeno e propone soluzioni.




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lo rivela Fabbrica Padova, il centro studi di Confapi,
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A Padova si Evade più Iva che in tutta la Svezia

In tutto il Veneto sono 3 miliardi Evasi al Fisco:   lo rivela Fabbrica Padova, il centro studi di Confapi,   che analizza il fenomeno e propone soluzioni


650 milioni di euro 'Nascosti' al Fisco

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In Italia basterebbe far emergere quanto si evade di Iva per coprire quasi per intero la prossima manovra finanziaria. Secondo un rapporto diffuso a settembre dalla Commissione Europea, infatti, la differenza tra quanto lo Stato incassa dall’Iva e quanto in linea teorica dovrebbe raccogliere è stata nel 2016 - ultimo anno analizzato nella sua interezza - di 35,9 miliardi, tra elusione fiscale ed errori nei calcoli della tassa. Circa un quarto dei 147,1 miliardi di euro frodati nell’intera Unione Europea, più che in ogni altro Paese.

650 milioni di euro evasi a Padova

Fabbrica Padova, centro studi di Confapi, proprio a partire da questi dati ha provato a stimare il dato relativo al gap Iva in Veneto e nella provincia. Lo ha fatto partendo dalle proporzioni presenti nello studio “Asymmetries in the territorial VAT gap”, elaborato l’Agenzia delle Entrate, che analizzava il fenomeno nel corso degli anni da una prospettiva legata alle singole regioni. Un rapporto da cui emerge che l’evasione Iva, in Veneto, “pesa” per il 9.16% su quella totale in Italia. Vale a dire, considerando il 2016, per circa 3 miliardi e 296 milioni (più di quanto non si evada nell’intero Belgio, dove si registra un gap Iva di 3 miliardi e 79 milioni di euro, o in Danimarca, dove il dato si assesta sotto i 2 miliardi e mezzo). E Padova? Considerando l’incidenza dell’economia provinciale rapportata a quella regionale, per lo stesso anno si può arrivare a stimare il dato in circa 649 milioni di euro. Più di quanto non si evada in stati come la Svezia (465 milioni di euro di gap Iva) e, ad esempio, più del doppio che in Lettonia (258).

Il rapporto con il Pil

È tuttavia significativo notare come l’incidenza dell’evasione in Veneto su quella italiana rispecchi il rapporto che esiste tra il Pil regionale e quello nazionale: il Veneto produce infatti il 9,21% del prodotto interno lordo del Paese. A partire da questa constatazione Fabbrica Padova ha elaborato un indice che tiene conto di questi due fattori (si veda la tabella in coda al testo), prendendo in esame i dati di alcune regioni italiane per quanto riguarda il contributo alla ricchezza nazionale e l’evasione dell’Iva. L’indice assegna il valore 1 a un livello di evasione “proporzionato” alla produttività, valori superiori all’1 se l’evasione è più alta e inferiori se è più bassa. Si nota come i 5 miliardi e 251 milioni di evasione Iva stimati per la Lombardia (14,59% dell’evasione Iva italiana), siano ad esempio inferiori al 21,71% del suo apporto al Pil (indice 0.67). In Campania (evasione Iva pari al 10,62%, produttività al 6,11%, indice di 1,74) la situazione è opposta,
per non parlare della Calabria (indice 1,90).

"Cifre mostruose, Individuiamo chi Imbroglia"

Carlo Valerio, presidente di Confapi Padova, commenta così lo studio: "Quelle relative all’evasione dell’Iva sono cifre mostruose, che da sole danno l’idea di quanto qualsiasi misura in grado di combattere il fenomeno vada favorita. Non è una giustificazione, ma se in Italia si evade così tanto è anche per via della troppa burocrazia che agevola coloro che non vogliono pagare le tasse, dell’eccessiva propensione all’uso del contante in confronto alle altre nazioni e del continuo ricorso da parte dei Governi che si sono succeduti negli anni di misure inquadrabili come condoni che sono, in un certo senso, una sorta di incentivo all’evasione. Detto questo, mi preme ampliare il ragionamento. I dati elaborati dal nostro centro studi ci dicono che, contrariamente a quanto si possa pensare rifacendosi al luogo comune dei piccoli imprenditori del Nord e dei lavoratori autonomi che evadono appena possono, il fenomeno incide molto di più in altre regioni, proprio quelle che, in questi anni, hanno goduto di forme assistenzialistiche più spinte e che potrebbero goderne ancora. Un esempio? Sicilia e Campania da sole - lo attestano i dati Inps - coprono il 53% del totale delle persone che beneficiano del Reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni lo scorso dicembre. Dei 6.5 milioni di potenziali beneficiari del Reddito di cittadinanza di cui si discute oggi, 1,7 sono concentrati nell’Isola. Attenzione: noi non diciamo certo che il Mezzogiorno non vada aiutato, ma non attraverso quelle che rischiano di essere misure che, se non ci sarà ad esempio un ripensamento dei centri per l’impiego, disincentivano il lavoro. Dirò di più: evitiamo che l’aiuto di Stato si assommi all’aiuto che si dà, da solo, chi evade e poi dichiara di vivere in condizioni di povertà. Il rischio, se non individuiamo gli anticorpi che consentono di identificare chi imbroglia, è che gli imprenditori onesti si ritrovino a pagare anche per chi non lo è".





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giovedì 7 novembre 2019

Ed il Mose che doveva salvare Venezia...

Ed il Mose che doveva salvare Venezia...

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 «Partirà nel 2021, salvo imprevisti»
Il taglio del nastro della grande opera per la salvaguardia della città dalle acque alte continua a slittare. «Mancano ancora 15 paratie». Poi ci saranno 3 anni di collaudo e i lavori di messa a punto della struttura. Storia di un cantiere infinito...

Ed il Mose che doveva salvare Venezia...

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Ed il Mose che doveva salvare Venezia...

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Venezia va sott’acqua e il Mose dov’è? Dov’è la grande opera che doveva salvare la città dalle alte maree? Perché dalle bocche di porto non si alzano le gigantesche dighe mobili che dovrebbero chiudere come un tappo la laguna quando il mare cresce sospinto dai venti di scirocco?

Opera incompleta
La risposta è sempre la stessa e sempre più imbarazzante: perché il Mose non è ancora pronto. «L’opera è al 94%», hanno ricordato poco più di un mese fa i commissari governativi del Consorzio Venezia Nuova, l’ingegner Francesco Ossola e l’avvocato Giuseppe Fiengo, costretti a riconoscere l’incompiutezza dell’opera davanti alla Commissione ambiente della Camera. Dove è stato sentito anche il Provveditore alle Opere pubbliche, cioè l’ex magistrato alle acque di Venezia, Roberti Linetti, che ha amaramente confermato il rallentamento dei lavori.

Ed il Mose che doveva salvare Venezia...

Ed il Mose che doveva salvare Venezia...

«2021, se tutto va bene»
Insomma, quando partirà il Mose, l’opera regina per la salvaguardia di Venezia costata alle casse pubbliche 5,493 miliardi di euro? «Nel 2021, questa è la nuova data, se tutto va bene», sussurrano con qualche difficoltà dal Consorzio. «Dobbiamo finire di mettere giù le 20 paratoie della bocca di porto di Lido Sud (le altre, Malamocco e Alberoni, sono ultimate): ne mancano 15. Si tratta delle ultime. Dovremmo chiudere il lavori per Natale, tempo permettendo».

Tre anni di avviamento
Posate le paratie, cioè i cassoni grandi come palazzi agganciati ai fondali che si dovrebbero alzare all’occorrenza bloccando l’alta marea, ci vorranno altri tre anni, previsti per l’avviamento, come da Convenzione, cioè il collaudo e il funzionamento. E poi bisognerà mettere a punto la struttura che dovrà governare il Mose: impianti dell’aria, dell’acqua, l’antincendio, i condizionatori, gli ascensori... «Cercheremo di farlo in questi tre anni, in contemporanea ai collaudi - riconoscono dal Consorzio - ma non ci sono dubbio: il ritardo è importante».

I continui rinvii
Perché il progetto Mose (Modulo Sperimentale Elettromeccanico), che prese il via nel 2001 sulla base di una legge del 1984, veleggiava su scadenze decisamente diverse. Il primo termine era stato fissato con molte promesse nel 2011: «Da quell’anno Venezia avrà risolto il problema delle acque alte». Opera complessa dai costi lievitanti, la partenza non poteva che slittare: 2014. Che è anche l’annus horribilis del «mondo» Mose, con l’indagine monstre per la colossale corruzione che ha coinvolto amministratori, politici, imprenditori, magistrati. Impossibile rispettare quella data. «No, sarà attivo nel 2017», avevano stabilito i progettisti un paio d’anni fa, scusandosi per la proroga.

Imprese in difficoltà
Ma oggi che la bufera giudiziaria è passata, perché si frena ancora a un metro dal traguardo? «Non è facile trovare qualcuno che faccia i lavori», dice chi li sta seguendo. I grossi gruppi che fino a qui hanno operato, Mantovani, Condotte e Fincosit, hanno i loro guai, fra concordati preventivi e rivoluzioni interne, e sembrano fuor gioco. Rimangono le «piccole» imprese del Consorzio ma anche lì non tutto è facile.

Il nodo della gestione
Sul taglio del nastro del Mose gravano poi i problemi della gestione e della manutenzione. A chi saranno affidate? Al pubblico? Al privato? A un soggetto misto? Ci penserà il Ministero? Il Comune che non ha denari? La Regione? La decisione spetta al governo.
Nel frattempo tutti si esercitano sulle date di avvio della grande opera. Si fissano, si spostano, si cancellano. E Venezia, fra un’acqua alta e l’altra, fa sempre allo stesso modo. Procede triste e lenta, come una gondola a fine corsa.


Giancarlo Galan Parlamentare Ruba water, lavelli e caminetti...

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Mose: Galan Condannato a Pagare 5,8 Milioni

Mose: Galan condannato   a pagare 5,8 milioni:   ‘Danni di immagine e disservizio’

Mose: Galan condannato 
a pagare 5,8 milioni:
 ‘Danni di immagine e disservizio’

Richiesta dal pubblico Alberto Mingarelli, la condanna della Corte dei Conti è diventata di pubblico dominio a poco più di un mese dall'udienza che si era tenuta a Venezia il 18 gennaio: "“E' indubbio che Galan abbia lucrato, quale prezzo del reato, somme notevolissime a fronte dei 'favori' fatti al Consorzio Venezia Nuova", scrisse il gup nella condanna seguita al patteggiamento.

Non è bastato il patteggiamento a due anni e dieci mesi di reclusione per lo scandalo Mose. E neppure la confisca della villa sui Colli Euganei per un controvalore di due milioni 600 mila euro. Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto, ex parlamentare di Forza Italia, ed ex ministro, dovrà risarcire allo Stato altri 5 milioni 808 mila euro, di cui 5 milioni 200 mila euro per danno all’immagine e 608 mila euro per danno da disservizio.

Mose: Galan condannato   a pagare 5,8 milioni:   ‘Danni di immagine e disservizio’

Richiesta dal pubblico Alberto Mingarelli, la condanna della Corte dei Conti è diventata di pubblico dominio a poco più di un mese dall’udienza che si era tenuta a Venezia il 18 gennaio. Ogni tentativo dei difensori Francesco Avino e Franco Zambelli si è scontrato fin dall’inizio, nelle motivazioni, con quanto scrisse il gup nella condanna seguita al patteggiamento: “E’ indubbio che Galan abbia lucrato, quale prezzo del reato, somme notevolissime a fronte dei ‘favori‘ fatti al Consorzio Venezia Nuova, il cui calcolo, limitato, naturalmente, ai soli episodi non prescritti, non è tuttavia agevole. Vanno computati, di certo, 400.000 euro ricevuti per il restauro della barchessa e circa un milione all’anno dal 2008-2009 al 2010 in cui è stato Presidente della Regione Veneto; non è noto se e quanto abbia percepito dalle società Adria Infrastrutture spa e Nordest Media srl e quali somme di preciso abbia incassato tramite Renato Chisso e quando non era più presidente della Regione Veneto…”.

La Corte ha poi preso in considerazione “ulteriori condotte del Galan emerse in ambito penale, che, anche se non avevano portato ad una condanna in quella sede perché prescritte, potevano avere rilevanza nel giudizio erariale”. Nella fomulazione originaria del capo di imputazione c’erano anche 900mila euro tra il 2006 e il 2007, nonché una somma analoga tra il 2007 e il 2008. Inoltre, 200 mila euro ricevuti nel 2005 all’Hotel Santa Chiara da Piergiogio Baita della Mantovani, tramite Claudia Minutillo, la sua ex segretaria.

La richiesta del danno d’immagine (5,2 milioni di euro) è pari al doppio dei due milioni 600 mila euro indicati nella sentenza del gup. Il danno da disservizio, invece, comprende il “60 per cento di tutte le retribuzioni percepite dal Galan dal 1° gennaio 2006 al 31 dicembre 2010 presso la Regione Veneto, durante il periodo in cui si sono svolti i fatti oggetto del processo penale relativo al MOSE, nel 60% della retribuzione erogata dal Senato della Repubblica nel 2006, nonché di quelle erogate dal Ministero delle Politiche Agricole nel 2010 e dal Ministero dei Beni Culturali nel 2011”. E’ così che si aggiungono altri 608 mila euro.

Mose: Galan condannato   a pagare 5,8 milioni:   ‘Danni di immagine e disservizio’

La difesa aveva replicato che i fatti non erano provati, che molti erano stati dichiarati prescritti e che quindi il calcolo andava rivisto. Anche perché il processo Mose è ancora in corso per quanto riguarda le posizioni dell’ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e dell’ex ministro Altero Matteoli, mentre non è neppure cominciato quello a carico di Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, e di Piergiorgio Baita della Mantovani. Veniva chiesta così la sospensione del processo contabile e “la chiamata in giudizio quantomeno dell’ex assessore Chisso Renato, di Mazzacurati, di Cuccioletta Patrizio e Piva Maria Giovanna (Magistrati alle Acque, ndr), di Giuseppone Vittorio, di Baita Piergiorgio, di Minutillo Claudia”.

La decisione dei giudici parte da un punto fermo. “Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la decisione dell’imputato di chiedere il patteggiamento della pena può considerarsi come tacita ammissione di colpevolezza e nei giudizi diversi da quello penale assume un valore probatorio qualificato, superabile solo attraverso specifiche prove contrarie”. I giudici affermano che “gli elementi emersi dall’istruttoria penale” e dai pronunciamenti della magistratura, patteggiamento compreso, “inducono a ritenere pienamente provate le condotte per le quali il Galan ha subito la condanna penale irrevocabile… avverso il completo e inequivoco quadro probatorio non sono state dedotte, né tantomeno allegate, pertinenti e convincenti prove contrarie”.

Inoltre, “non può porsi in dubbio che dalle condotte del convenuto Galan sia derivato un gravissimo danno all’immagine della Amministrazione  regionale emergendo con evidenza il clamore mediatico derivato dai fatti in questione sui principali organi di informazione, nazionale ed internazionale, che hanno ripetutamente descritto le condotte delittuose commesse dal Galan, mettendone in evidenza gli aspetti più gravi e disdicevoli, tali da ingenerare ricadute negative sulla valutazione dell’opinione pubblica in ordine all’affidabilità dell’Amministrazione da lui governata”.

La Corte ritiene vi sia stato anche un danno da disservizio che “deriva dalla mancata connessione tra il potere esercitato ed il fine istituzionale per il quale detto potere è attribuito”. E ha esteso il periodo di questo comportamento illecito anche ai fatti prescritti. “Risulta comprovato che, al fine di perseguire un ingentissimo utile personale, il Galan, approfittando del potere, di diritto e di fatto, conseguente alle sue funzioni, si è ingerito concretamente nelle scelte della Regione Veneto, non solo orientandone la politica, ma incidendo in concreto su decisioni gestionali, in spregio ai principi di buon andamento, imparzialità, efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa”.

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Cercasi Commessa con Voglia di Lavorare

Cercasi Commessa con Voglia di Lavorare ecco Spiegato perchè non Trova Nessuno

Cercasi Commessa con Voglia di Lavorare

sarebbe proprio il caso che ci facesse lavorare la figlia ,
la nuora ,una nipote, insomma qualcuno della sua famiglia !
 Incuriosito dal cartello sono entrato nel panificio
 fingendo di chiedere informazioni per mia figlia.
Ebbene, per la proprietaria la voglia è quella di lavorare
 dal lunedì al sabato dalle 7.30 alle 13.30 e dalle 16 alle 21,
 la domenica mezza giornata ( mi pare giusto dopo tanta abbuffata di lavoro,
 lavorare l'intera giornata festiva potrebbe far passare la voglia).
Le ferie tre giorni a ferragosto, la paga è per i primi tre mesi di 500 euro 
e se si supera il periodo di prova è di 750 
e siccome non si pagano i contributi sulle nuove assunzioni
 ti fa un contratto part time di 20 ore settimanali.
Beh, chi ha ancora voglia di lavorare?


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Arcelor Vuole 5mila Esuberi

Arcelor Vuole 5mila Esuberi

Arcelor Vuole 5mila Esuberi

Ilva, Conte: 
“Arcelor ha ammesso 
che lo scudo non c’entra: 
vuole 5mila esuberi.
 Inaccettabile. 
L’Italia non si fa prendere in giro”

Il diktat dei franco-indiani è durissimo e l'esecutivo si trova di fronte a una sfida proibitiva. Il premier: "Il Paese regga l'urto, le iniziative della società sono molto preoccupanti. È allarme rosso. Incontreremo di nuovo l'azienda tra 48 ore, giovedì convochiamo i sindacati". Patuanelli: "Il piano industriale è stato proposto in una gara ad evidenza pubblica nel 2017. Incapaci di rispettarlo". Fiom-Cgil e Uilm proclamano sciopero per l'8 novembre

Arcelor Vuole 5mila Esuberi


La crisi dell’Ilva è da “allarme rosso” e il governo dovrà fronteggiare una giravolta di ArcelorMittal che, a un anno dagli impegni assunti, ha messo sul piatto richieste pesantissime per non riconsegnare le chiavi dell’acciaieria di Taranto. In primis 5mila esuberi, cioè la metà del personale riassunto. Un diktat “inaccettabile”, dice il premier Giuseppe Conte, assicurando che il governo è “unito e coeso” di fronte a una situazione da “allarme rosso” perché “le iniziative della società sono molto preoccupanti”. Ma l’esecutivo è intenzionato a mantenere il punto. Da un lato, l’apertura: “Abbiamo detto che siamo disponibili a una nuova immunità penale. Ci è stata rifiutata”. Dall’altra il chiarimento: “Il tema non è lo scudo. Il problema è industriale, ArcelorMittal ritiene che l’impianto produttivo, a questi livelli, non è sostenibile e non può mantenere i livelli occupazionali”. Quindi l’attacco: “Per noi non è accettabile lasciare 5mila famiglie senza un lavoro e un futuro. Siamo disponibili a lavorare e a tenere aperto un tavolo negoziale. Ma la riduzione dei livelli occupazionali o la riconsegna degli impianti sono inaccettabili”. E anche un appello: “Qui dobbiamo alzare la posta in gioco, dobbiamo alzare il nostro orizzonte d’osservazione. Questo Paese non si lascia prendere in giro. Questo è un Paese serio. L’Italia sia compatta e regga l’urto di questa sfida”.

Le richieste di ArcelorMittal
Ovvero le richieste presentate dal presidente e ceo Lakshmi Mittal e il figlio Adyta: cinquemila esuberi e anche una norma ad hoc per ‘tenere in vita’ l’altoforno 2 che rischia di essere spento dalla magistratura. Queste le tre condizioni per non disimpegnarsi dal rilancio dell’acciaieria più grande d’Europa, lasciando il governo tra meno di un mese con 10.777 operai sul groppone e le società del gruppo che fu della famiglia Riva da ri-piazzare a un privato. Una sfida proibitiva per l’esecutivo, perché significherà conciliare, nei fatti, le minacce del colosso franco-indiano della siderurgia, totalmente in contrasto con gli impegni assunti appena un anno fa, e le idee finora non coincidenti all’interno della maggioranza sulle tutele legali. E contestualmente dover gestire la richiesta di una maxi cassa integrazione per la metà delle persone riassunte nel novembre 2018.

Arcelor Vuole 5mila Esuberi

Patuanelli: “Loro incapaci di rispettare i piani”
Una marcia indietro dell’azienda di fronte alla quale il governo sembra intenzionato a non cedere. Il ministro Stefano Patuanelli è chiarissimo: “Questa è una vertenza industriale, ArcelorMittal ce lo dice dal 12 settembre. Anche risolto tutto il resto, loro mettono sul tavolo la produzione a 4 tonnellate e 5mila persone in meno. Avrebbero dovuto produrre 6 milioni di tonnellate fino al 2023 per poi arrivare a 8. È evidente che sono loro ad essere incapaci di rispettare il piano industriale”, punge in riferimento alle accuse dei franco-indiani contenute nella lettera di recesso e nella citazione in tribunale. Non è l’unico elemento di preoccupazione: “Se non si produce, non si investe sul piano ambientale”. Per questo, aggiunge il ministro, “ci siamo detti disponibili anche ad accompagnare la situazione attuale, legata alle tensioni commerciali e alla crisi dell’automotive, questioni contingenti”. Insomma, l’esecutivo è disposto a prorogare la cassa integrazione ordinaria – già chiesta e ottenuta da luglio – per circa 1.300 operai. “Ma loro sono stati chiari: la riduzione della produzione è strutturale. Per noi è inaccettabile – ha concluso Patuanelli – Il piano industriale di ArcelorMittal è stato proposto in una gara ad evidenza pubblica nel 2017 e sono entrati sostanzialmente un anno fa”.

La giornata di Conte e le 48 ore ad Arcelor
La giornata di Conte è stata lunghissima e si è chiusa con un Consiglio dei ministri fiume, durato oltre 3 ore, che all’ordine del giorno non aveva la questione Ilva ma è ruotato tutto attorno all’emergenza Taranto. Un ‘gabinetto di guerra’ perché le soluzioni vanno trovate in fretta e il governo ha già detto ai Mittal che il prossimo incontro si terrà tra 48 ore, mentre già giovedì verranno convocati i sindacati. In mattinata era partito l’ennesimo pressing dell’azienda che prima di entrare a Palazzo Chigi ha ufficializzato l’apertura della procedura ex articolo 47. In sostanza, ha avvisato i commissari di riprendersi gli impianti e tutti i dipendenti. Quindi il faccia a faccia al quale si sono presentati Lakshmi Mittal e il figlio Adyta. I proprietari sono scesi in campo in prima persona, lasciando fuori dalla porta perfino l’amministratore delegato Lucia Morselli, scelta appena 3 settimane fa proprio per gestire la fase più delicata della loro avventura in Italia.

Tutte le richieste di Mittal
Di fronte ai rappresentanti del governo i proprietari di ArcelorMittal hanno messo in fila le loro richieste: tagli draconiani sui lavoratori con la richiesta di 5mila esuberi, quasi la metà dei riassunti a tempo determinato (l’azienda è in affitto), perché la produzione sarà abbassata a 4 milioni di tonnellate dalle 6 previste lo scorso anno; il ritorno dello scudo penale per evitare guai giudiziari durante l’attuazione del Piano Ambientale e un provvedimento che permetta di tenere in vita l’altoforno 2, a rischio spegnimento da parte della magistratura il prossimo 13 dicembre per il mancato adeguamento imposto dai giudici già dal 2015. In sostanza, una riscrittura del contratto firmato un anno fa e una blindatura sotto il profilo legale. Altrimenti l’azienda andrà avanti con il recesso e lascerà gli impianti a inizio dicembre.

Arcelor Vuole 5mila Esuberi


Lo sciopero di Fiom e Uilm
L’addio lascerebbe il governo con il cerino in mano e una situazione occupazionale che si preannuncia esplosiva. I sindacati sono già sul piede di guerra, pur non procedendo compatti. La Fim-Cisl, a vertici in corso, si è mossa autonomamente con uno sciopero immediato che ha trovato un’alta adesione tra gli 8.200 operai di Taranto. E in serata è toccato a Fiom e Uilm che hanno proclamato una nuova giornata di astensione dal lavoro per l’8 novembre con una manifestazione a Roma “per salvaguardare il futuro ambientale e occupazionale del territorio ionico” e “di fronte all’arroganza” di ArceloMittal e “ad una totale incapacità ed immobilismo della politica”.


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martedì 5 novembre 2019

Lavoro solo 4 Giorni la Settimana

 Lavoro solo 4 Giorni la Settimana

TEST NELLA SEDE DI TOKYO

 Microsoft ci ha provato. E funziona.
L’esperimento è stato fatto nella sede di Tokyo del colosso informatico, ed ha riguardato 2.300 dipendenti. La produttività è aumetata del 39,9% e i costi aziendali si sono ridotti.


 Lavoro solo 4 Giorni la Settimana


di Biagio Simonetta

Lavorare quattro giorni a settimana anziché cinque funziona. E aumenta i tassi di produttività. È il risultato di un esperimento targato Microsoft, che in Giappone ha voluto testare la settimana di lavoro più corta. Con l'iniziativa “Work Life Choice Challenge”, l'azienda di Redmond ha deciso di provare una settimana di lavoro ridotta per i suoi 2.300 dipendenti della sede di Tokyo. Un modo per promuovere un equilibrio più salutare tra lavoro e vita privata. Da qui è nata l'idea del weekend lungo: uffici chiusi venerdì, sabato e domenica per un mese (agosto 2019), così per valutare eventuali pregi e difetti di questa scelta.

Risultati soprendenti
I risultati, come detto, sono stati sorprendenti. Secondo quanto riferito dalla stessa Microsoft, per il periodo del test la produttività (che è stata misurata in termini di vendite per dipendente) è aumentata del 39,9% rispetto allo stesso mese dell'anno precedente (agosto 2018, dunque). Un incremento significativo, insomma, ottenuto grazie a uno snellimento generale dei tempi dedicati ad alcune fasi del processo. Sono state limitate, ad esempio, le riunioni in azienda,
con tempi massimi previsti di 30 minuti.

E allo stesso tempo sono diminuiti i costi aziendali fissi: le spese per l'energia elettrica sono scese del 23,1%, e anche il consumo di carta utilizzata in sede per fax, stampe e il resto si è più che dimezzato.
A tutto questo si sono aggiunti i feedback fortemente positivi degli stessi dipendenti: il 92,1% di questi che ha dichiarato di apprezzare la settimana lavorativa di quattro giorni. Una percentuale che, benché prevedibile, racconta molte cose sullo stato d'animo dei dipendenti.

Nuovo esperimento a breve
Dopo il test di agosto, i dipendenti giapponesi di Microsoft sono tornati a lavorare come sempre, cinque giorni su sette. Ma visti i risultati dell'esperimento, la società ha fatto sapere di voler introdurre un nuovo periodo di prova nei prossimi mesi invernali. Il Giappone, del resto, è uno dei Paesi dove la tematica del superlavoro è molto sentita. In molte aziende, come riportano alcuni report pubblicati dal governo nipponico, le ore di straordinario raggiungono numeri altissimi, diventando un vero e proprio problema nazionale. E se ridurre le ore (e i giorni) di lavoro, coincide con un aumento così importante della produttività, forse vale la pena provare a imboccare questa nuova strada.

Il test è avvenuto nel mese di agosto ed è durato cinque settimane, in cui i lavoratori lasciavano l’ufficio il giovedì per ritornarci poi solamente il lunedì successivo.

Stando a quanto riportato, l’esperimento si è rivelato piuttosto redditizio, con la produttività degli impiegati che è risultata decisamente migliorata. Nello specifico, le vendite sono aumentate del 40% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e sono anche state sprecate meno risorse.

L’azienda ha infatti consumato il 59% in meno di carta, e il 23% in meno di elettricità, risparmiando dunque anche sui costi di gestione.

Alla fine dell’esperimento il 94% degli impiegati si è detto soddisfatto della prova. Tale periodo di prova fa parte di una strategia che punta ad offrire condizioni più vantaggiose ai lavoratori, insieme alle riforme del Primo Ministro giapponese Shinzo Abe, che ha già introdotto un tetto agli straordinari e alzato gli stipendi dei lavoratori part-time,
 e potrebbe essere replicato in altre parti del mondo.

Già alcune compagnie si sono dette interessate, ed alcune piccole aziende hanno già lodato i benefici della prova, come un equilibrio migliore della vita tra lavoro
 e tempo libero e in generale una migliore produttività.

Prima di andare a proporre l’idea al vostro capo però, pregustando i vostri weekend lunghi, sappiate che ci sono anche delle possibili controindicazioni che preoccupano le aziende e i sindacati.

Innanzitutto il concentrare il lavoro in meno giorni potrebbe risultare in una settimana di lavoro generalmente più pesante e con più pressione. Inoltre c’è bisogno di leggi apposite che regolamentino bene il tutto, per evitare il rischio che qualche datore di lavoro tenti di fare il furbo e di approfittarne per ridurre semplicemente il salario dei propri impiegati per via del giorno in meno impiegato in ufficio e di una settimana lavorativa composta da “soli” quattro giorni.

Insomma, se da un lato si può essere attratti dall’idea del colosso di Redmond, dall’altro c’è da stare attenti. In ogni caso, per il momento è destinato a rimanere un esperimento, dato che, ad esempio, nessuno dei candidati alla Presidenza degli Stati Uniti nel 2020 sembra avere nel proprio programma la proposta di ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni.

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Sfortunatamente, con un tasso di disoccupazione così elevato come negli ultimi anni, la priorità è, ovviamente, avere un lavoro ma, per coloro che hanno la fortuna di averlo, è importante che le condizioni siano le migliori possibili. Una giornata lavorativa più corta non solo migliora la qualità della vita del lavoratore ma anche i risultati aziendali. Un impiegato più riposato e contento sarà più produttivo di uno con un carico di lavoro maggiore e più ore lavorate alle spalle. Inoltre, con meno ore di lavoro ci sarebbe meno stress e si ridurrebbero le assenze. E se, invece di 5 o 6 giorni alla settimana, un‘azienda aprisse solo 4 giorni, risparmierebbe molto.

Oggi si stanno facendo alcuni test per verificare se una riduzione della giornata lavorativa genera più produttività. Questi test però sono da prendere con le pinze sia per i tempi di attivazione sia perché è il governo svedese che li sta facendo. A Göteborg, una delle principali città del paese, la metà dei funzionari sta lavorando 6 ore al giorno, mentre l’altra metà continua il suo orario di 8 ore. Alla fine dell’anno si verificherà quale dei due gruppi è stato più produttivo
 e quale ha avuto meno assenze dal lavoro.

Logicamente non ci sono solo vantaggi in una giornata lavorativa ridotta. Lo svantaggio principale è che anche il salario sarebbe ridimensionato se si lavorasse meno. Anche se, visto sotto un altro punto di vista, ci sarebbe più creazione di impiego. Sono invece sicure due cose: a prima è che ci guadagneremmo tutti in qualità della vita e potremmo conciliare molto meglio vita lavorativa e vita famigliare. La seconda è che, probabilmente, deve passare molto tempo prima che succeda…

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