Settantasette dipendenti di una storica fabbrica di ceramiche etnea,
Cesema, hanno messo da parte metà della loro Cig per costituire una
cooperativa sociale e riacquistare la loro vecchia azienda.
«Ognuno deve
fare la propria parte. Rischiamo tutto per una società in cui
crediamo».
Catania,
77 operai hanno rinunciato a parte della
cassa integrazione
per rimettere in piedi la loro vecchia azienda, fallita, e ricominciare
la produzione. Questa è una storia di tenacia siciliana, che alla
faccia dei luoghi comuni si rafforza davanti ai momenti di crisi, inizia
trent'anni fa, quando nel 1980
Salvo Falsaperla, 49 anni, viene assunto in un'azienda di ceramiche, la
Cesame.
«Ricordo ancora il primo giorno di lavoro – racconta
Falsaperla a
tempi.it
–: mi sembrava un sogno e non posso dimenticare quel clima di grande
familiarità che si respirava e che non è mai mancato, nemmeno nei
momenti più bui». All'epoca, e per tutti gli anni '90, nei due
stabilimenti catanesi lavoravano
600 dipendenti e la
produzione veniva esportata in 48 paesi. «Anni d'oro. Poi è iniziato il
calo progressivo delle vendite, ed è stato avviato un piano di
prepensionamenti. Nel 2000 eravamo ormai dimezzati, 370 dipendenti». Nel
2003 il ministero dello Sviluppo nomina un
commissario tecnico e viene avviata la
cassa integrazione per la metà dei dipendenti. Seguono anni di
produzione a singhiozzo.
«Grazie ad un commissario veramente in gamba, inizialmente ci furono due
anni di ripresa, e si arrivò ad un milione di euro al mese di
fatturato.
Ed è poco rispetto al fatturato degli anni d'oro: immaginate quanto
valeva questa realtà quand'era sana. Nel 2005 l'azienda è stata rilevata
da una nuova società, milanese, la Forex, che presentò un piano
industriale. Prevedeva il riassorbimento di
140 dipendenti,
e il licenziamento di tutti gli altri. I sindacati dell'azienda
siglarono allora un accordo con Provincia e Comune di Catania, per il
ricollocamento di altri 120 lavoratori esclusi.
Purtroppo, ad oggi, non mi risulta che questo accordo sia stato
rispettato: so di circa 70 persone che, concluso il periodo di sussidi
di mobilità, sono rimaste disoccupate». La nuova gestione non ha avuto
successo: «La Forex era una società finanziaria, incompetente a livello
di produzione industriale, e a mio parere aveva solo obiettivi
speculativi. Ha puntato solo sulle vendite di magazzino, dove avevamo
prodotti per 2,5 milioni di euro di valore. Ha iniziato a non pagare
fornitori e rappresentanti e il fatturato è di nuovo crollato in sei
mesi. Nel 2007 è stata bloccata la produzione per mancanza di materie
prime». Da allora per la
Cesame è iniziato un can can di vertenze in tribunale. L'
azienda
ha cambiato di nuovo proprietà, ancora con scarsi esiti. Intanto si
sono accumulati 15 milioni di euro di debiti. È in quegli anni di crisi
che
Falsaperla inizia anche a impegnarsi nel sindacato per cercare una soluzione.
«Noi
operai
in quegli anni abbiamo avuto l'impressione di trovarci di fronte ad un
gioco di scatole cinesi. Così, nel 2009, come dipendenti abbiamo chiesto
al tribunale di sentenziare il
fallimento della società». La situazione è divenuta però sempre più tesa proprio per i dipendenti. «Per oltre un anno siamo rimasti senza
stipendio o
in cassa integrazione. Come facevamo? Ognuno si è arrangiato come
poteva. Io ho avuto la fortuna di avere qualche risparmio da parte, e
mia moglie che lavora. Ma ci sono stati miei colleghi che hanno perso la
casa, e altri che hanno visto lo sfascio delle proprie famiglie. Però
non c'è stato un attimo in cui l'idea di gettare la spugna mi abbia
sfiorato, perché sento quest'azienda sulla mia pelle. Dopo 30 anni di
lavoro intenso e appassionato, è una parte di me. Anche se sarà
difficile dimenticare quegli anni, che non esito a definire infernali».
Nel febbraio 2010, i 140 dipendenti rimasti iniziano a percepire la
cassa integrazione. Ma invece di accontentarsi, danno una svolta netta alla loro storia. Ricorda
Falsaperla:
«È stato allora che abbiamo iniziato a ragionare su cosa si sarebbe
potuto fare del nostro futuro. Noi operai, che abbiamo tenuto in piedi
quest'azienda, siamo certi che la
Cesame, se gestita bene, funzionerebbe e potrebbe superare qualsiasi congiuntura. Così, in
77
abbiamo deciso di mettere da parte un po' della nostra mobilità e
investirla nella creazione di una cooperativa sociale per rilevare
l'azienda. Che sia stata una buona idea ne sono sempre più convinto. Ma
vi assicuro che non è stato facile per nessuno di noi rinunciare al
Tfr e alla
mobilità, per circa
22 mila euro a testa.
Però dal 2010, ogni mese, tutti e 77, costi quel che costi, abbiamo
sempre versato alla cooperativa 300 euro a testa, la metà della nostra
Cig».
Prosegue
Falsaperla: «Un altro fatto importante è stato l'incontro con l'
ex amministratore delegato della “nostra”
Cesame,
quella dei tempi d'oro, Sergio Magnanti. Anche lui ha accettato di buon
grado di impegnarsi in questa avventura, mettendoci a disposizione
tutta la sua competenza manageriale. Oggi è il nostro presidente.
Insieme a lui abbiamo presentato un
business plan da 11 milioni di euro e una produzione di
120 mila pezzi
all'anno che servirà a coprire spese e stipendi». Con il versamento di
due milioni di euro, lo scorso 6 dicembre 2011, i lavoratori della
cooperativa sociale Cesame hanno sottoscritto l'
atto di acquisto
della parte produttiva della vecchia azienda, la parte ancora oggi
“sana”, con i commissari speciali del ministero dello Sviluppo
economico.
«Alle istituzioni abbiamo solo chiesto un
finanziamento,
che però consideriamo un prestito. Regione siciliana e ministero dello
Sviluppo si sono impegnati ad aiutarci con 5 milioni di euro: contiamo
di riprendere la produzione entro un anno da oggi, se tutti
rispetteranno questi impegni. In questo momento le parlo dallo
stabilimento. Siamo in 21, e stiamo pulendo l'azienda, che nel frattempo
era stata anche preda di atti vandalici (per
5 milioni di euro,
secondo le stime, ndr). Cerchiamo di recuperare tutto ciò che possiamo.
Poi prenderemo due forni, un macchinario di colaggio nuovo...».
Falsaperla, che della nuova
Coop sociale è
vicepresidente, non ha attimi di esitazione. «Sa qual è il mio sogno?
Coinvolgere tutti gli altri colleghi rimasti ancora per strada. Abbiamo
intenzione di creare almeno altri
100 posti di lavoro e
di arrivare a regime ad una produzione di 300 mila pezzi l'anno. Spero
il prima possibile. Ma il nostro presidente è convinto di farcela: sa
che i vecchi clienti ci reclamano?».
Benvenuti al Sud. Nella
Sicilia
che ha vissuto del mito dell'aiuto istituzionale, del posto fisso,
meglio se nel pubblico impiego, questi 77 operai sono un vero schiaffo.
«Macché posto pubblico. Preferisco questi rischi: sa quale può essere la
soddisfazione di rientrare a casa, con l'orgoglio di avere una società
che produce Pil?». Anche davanti alla crisi. «La
crisi
c'è, ma qui a Catania io vedo tanti che si danno da fare. Magari si
guadagna poco, ma io dico che prima poi le cose finiranno di andare
male. Secondo me, il punto è che ognuno di noi si deve muovere per fare
la propria parte. La società cooperativa è proprio il simbolo di questo:
noi stiamo rischiando tutto ciò che abbiamo in una società in cui
crediamo, perché non vogliamo più dipendere dagli altri. Se riusciremo
nella nostra
impresa, porteremo da mangiare alle nostre
famiglie. Altrimenti vorrà dire che non siamo stati capaci. Ma spero che questo non avvenga. Ora torno a lavorare».
http://www.tempi.it/catania-77-operai-rinunciano-alla-cassa-integrazione-comprare-la-loro-azienda-ora-ripartiamo
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