A Civitavecchia li hanno presi a manganellate appena scesi dalla nave. Volevano arrivare a Roma per spiegare che ormai un agnello vale meno del fieno che mangia. E il cartello dei caseifici li sta strozzando. Ma non ci sono riusciti
Macché oro bianco. Di latte in Sardegna non si campa più. È stato avvelenato da una parola che in sardo nemmeno esiste. Ci sono venti modi di chiamare "su masòne", il gregge, e nessuno per dire: globalizzazione. Eppure è quel germe venuto dal futuro che sta uccidendo i pastori.
Dopo secoli di pascolo e mungiture a mano è arrivata improvvisa come l'inverno la grande carestia. Ha ridotto in pezzi l'economia locale e trasformato il gruzzolo che rendevano latte, lana e carne d'agnello in misera elemosina. Per sconfiggerla non basta "su marràtzu", il leggendario coltello che i pastori portano sempre in tasca. E così stavolta sono scesi dalla Barbagia senza le pecore. Accampati sotto il palazzo della Regione-nazione per gridare la loro rabbia.
Roberto Fresi ha 43 anni e a Valledoria, da dove viene lui, nemmeno sanno cosa sia il modello lombardo-veneto che impera nel Nord. Sanno solo che in quella piazza di Cagliari lui ci ha lasciato un occhio, colpito da un lacrimogeno mentre contestava un governo che ai lattai padani ha condonato le multe mentre ai sardi scava la fossa. Sandro Ibba, 50 anni, è sceso da Vallermosa e si è incatenato minacciando di darsi fuoco. Fino a svenire per gli stenti e la fame. Franco Peddio è stato preso a bastonate e porta una benda in testa. Quando l'ha visto suo padre ottantenne gli sono scese le lacrime. "Non per le botte, ma perché un pastore ferito è il sangue di tutti i sardi", sussurra. Se continua così, sempre più ovili chiuderanno e a migliaia saranno costretti a cercarsi un nuovo lavoro. Lavoro che non vogliono. E che in Sardegna nemmeno troverebbero.
Salvatore Prasciuolo viene da Orroli, un paesino abbarbicato sul nuraghe Arrubiu fra le dighe del Flumendosa e del Mulargia, lassù dove perfino le capre fanno fatica a salire. Se piove ci devi andare a cavallo, perché la strada è franata tre volte. Ha 64 anni e non ha mai visto una mungitrice meccanica, ma non gliene importa, tanto non avrebbe né i soldi per pagarla né la corrente per farla andare. Il suo ovile fatto di debiti, multe e condoni cade a pezzi. Gli restano i figli Antioco e Tito, di 26 e 30 anni.
Da quando erano bambini la sveglia all'alba significa mungere per quattro ore "a crai", come si dice quassù: "A mano, ma solo con tre dita e la pecora fra le gambe. Qui il terreno è ripido e se tiri le mammelle come in pianura il latte va fuori". Babbu Salvatore lo chiamano "su prufissori", perché s'è preso la licenza elementare a 15 anni e sta scrivendo un libro in sardo sui pastori della Barbagia. Ma se gli domandi di "Padre padrone" o di Gavino Ledda, ribatte che è roba per turisti: "Aveva trenta pecore, io ne pascolavo quattrocento. Dormiva in una capanna, io all'addiaccio, coprendomi con il bestiame. Adesso i miei figli non hanno da mangiare e non posso certo mandarli in continente, perché là ci sono gli extracomunitari e i pericoli".
A questa gente il latte costa la schiena e a fine giornata, per andare in pari, dovrebbero intascare 90 centesimi al litro. Invece il cartello degli industriali gliene concede 60 quando nel 1985 lo pagavano anche 1.850 lire. "È il libero mercato, prendere o lasciare", tagliano corto cooperative e caseifici. Perché ormai il latte sardo vale meno dell'acqua, da quando si può acquistare a grandi stock in Spagna o in Romania. A queste condizioni i pastori ci rimettono un euro per ogni secchio munto. E la fregatura è che tutto dipende dall'America. Da quanti dollari, cioè, siano disposti a spendere laggiù per un chilo di Pecorino Romano. Il nome non c'entra con la Ciociaria, si chiama così perché lo mangiavano i legionari. E ogni anno sull'isola se ne producono 270 mila quintali, il 90 per cento del prodotto nazionale. Il problema è che quelle forme salate da 25 chili non piacciono più al mercato globale, che le ha relegate fra i formaggi da grattuggia. In due anni sono salpati verso gli Stati Uniti 50 mila quintali in meno, un crollo dell'export che ha abbattuto il prezzo.
I pastori da qui non vedono le luci della Quinta Strada, però, l'orizzonte più lontano per loro resta l'ultima pecora del gregge. Così incolpano Andrea Pinna, padrone del più grande caseificio di Sardegna. È finito nel mirino della protesta proprio come la Coldiretti e nessuno sui pascoli sardi lo vuole sentir nominare. Tutto perché, quattro anni fa, ha investito soldi in Romania: "Confeziona il formaggio sardo all'estero e poi fa il prezzo del nostro latte", protesta Giovanni Deiana di Pattada sul Lago Lerno mentre gli altri applaudono. "Calunnie", ribatte l'industriale di Thiesi che impiega 200 dipendenti: "La Romania non c'entra, lì produciamo meno del 2 per cento del formaggio che va in America.
Anzi, grazie a quel caseificio abbiamo cominciato a vendere anche il pecorino fatto qui in Sardegna sui mercati esteri". Mentre lo dice, negli ovili la miseria avanza. Non c'è solo il latte a pesare sui conti in rosso. È la pecora a valere sempre meno e costare sempre più cara. Il mangime in pochi anni è salito da 15 mila lire a 35 euro al quintale, i vaccini contro il virus della "lingua blu" si sono moltiplicati, così come i capi morti nelle stalle. Per tutta risposta un agnellino vale meno del fieno che mangia, pagato dal macellaio 3 o 4 euro al chilo se ti va bene, e soltanto a Natale o Pasqua.
Passate le feste si scende sotto l'euro e mezzo e al danno s'aggiunge la beffa: mentre la legge impone una targhetta all'orecchio che attesti l'origine di ogni capo, non appena la pecora arriva dal macellaio le orecchie vengono tagliate. E tutte le informazioni vanno perse, mescolando carne sarda a carne straniera. I pastori non ce la fanno più e sono saliti fino a Porto Torres per fermare gli sbarchi. Greca Puddu non ci voleva credere, così a 60 anni è salita su un cargo spagnolo come facevano i pirati saraceni: "Abbiamo bloccato la nave e siamo entrati nelle stive. Erano piene di carne, tutta marchiata come sarda. Invece puzzava e aveva i vermi. Quella roba fa concorrenza a noi e abbatte i prezzi", racconta a "L'espresso". La stessa cosa vale per la lana, che una volta si vendeva a 1.300 lire al quintale mentre adesso nessuno è disposto a comprare: "Fra poco ci chiederanno soldi per smaltirla come rifiuto".
È tutta qui l'origine del virus che sta ammalando la pastorizia sarda. Tre milioni e mezzo di pecore fanno una media di quasi tre per abitante, troppe per gente che s'era indebitata per terreni e ovili e oggi non incassa più. I soldi per i mutui stanno finendo e il Banco di Sardegna si sta riprendendo tutto. Proprio come due secoli fa, quando l'Editto delle chiudende mise fine al comunismo agrario e attorno ai prati liberi apparvero i muri e il divieto di pascolare senza pagare "sa tanca", regalando cioè metà del bestiame al proprietario terriero: "Anche allora succedeva nel nome di un nuovo sistema di produzione, come adesso. Oggi vogliono regalare la Sardegna ai miliardari", denunciano i pastori. Loro che in Costa Smeralda ci sono andati una sola volta e non in vacanza. Sono saliti a Olbia per occupare l'aeroporto ma, arrivati a Porto Rotondo, sono rimasti a bocca aperta: "Era come il paradiso, tavole imbandite, luci, divani bianchi in strada. E soprattutto le facce serene: i ricchi non hanno le rughe e la morte negli occhi dei pecorai", raccontano.
Secondo politici e industriali sardi, però, le cose non starebbero proprio così. C'è un rovescio della medaglia. Ripetono che per decenni quella gente è stata una categoria protetta: quattrini pubblici se pioveva troppo, quattrini se pioveva poco, ancora quattrini per i vaccini. Soldi che spesso sono finiti in Bot o in case a Cagliari, mentre i servi pastori figli dei falchi sono stati sostituiti da clandestini romeni sottopagati. Eppure, girando per gli allevamenti, fra quelle campagne nessuno se la passa bene come succede nei caseifici. Nemmeno chi quei soldi li ha investiti davvero, trasformando gli ovili degli avi in moderne aziende d'allevamento. Imprenditori di nuova generazione come Fortunato Ladu, che governa 250 ettari e mille pecore, capre, tori, cavalli e struzzi.
Nella casa padronale sotto le pale dell'eolico a Pavillonis, nel campidano, spolvera un libro del cantore dei pastori, il Montanaru: "Nun brighes cun nisun nu cristianu, ma si t'esset forzosu briga ene". Vuol dire che un pastore non bisticcia, ma se proprio deve farlo sarà il suo nemico a tremare di paura. È questo il monito che sale dalla piazza. Come fu vent'anni fa quando guidati dal capopopolo Felice Floris lanciarono le pecore sgozzate contro le vetrate del palazzo della Regione: "Stavolta le abbiamo lasciate al pascolo, valgono troppo per portarle a morire qui", spiega Francesco Gioi. Ha 55 anni ed è sceso da Desulo, nel cuore della Barbagia, dove la campagna è la più brulla e dura.
Pascolare sul Gennargentu vuol dire transumanza, come i nonni, e migliaia di notti solitarie: a novembre, quando il Bruncu Spina è bianco di neve e l'erba gelata, Gioi lascia l'ovile a piedi e scorta il gregge per 150 chilometri con cani e bastone d'olivastro: "Io dormo camminando da trent'anni, cosa volete che sia per me venire qui a protestare?". Paolo Mele arriva invece da Nuramenis. Finì in galera per gli scontri di vent'anni fa e adesso è anche più disperato di allora: "Ho chiesto un prestito di 10 mila euro, poi si sono ammalate le pecore e mi hanno pignorato la casa. Mio figlio ha cinque anni ed è disabile, sono stato a Firenze per farlo curare e dormivo sulle panchine. Se mi staccano la corrente, quel bambino muore", ripete in lacrime. Storie solo all'apparenza opposte a quella dei fratelli Valerio e Giuseppe Baldussi, gente con quattro trattori nel cortile, roba che da queste parti significa benessere. Loro padre era analfabeta e quando comprò il primo campo sbagliò a scrivere il cognome, così persero la "u" finale. "Quella "i" ci ha dato lo spunto per innovare, solo che adesso che abbiamo ben cinquecento ettari guadagnamo meno di papà", spiega Valerio. È uno che ha girato il mondo per capire dove stesse andando l'agricoltura. Uno che s'è buttato sull'inseminazione artificiale per raddoppiare gli agnelli e sull'innaffiatura sotterranea per non regalare acqua al sole e al vento di Sestu: "Ma siamo alla fame tutti, i piccoli come i grandi. In Sardegna c'è un detto: più grosso è l'animale, più grosso è il buco della tana".
I conti sono facili da fare. I nonni mantenevano sei figli con trecento pecore, i padri quattro figli con settecento. Oggi con mille pecore sposarsi e avere un bambino è un sogno come la casa per un precario di Milano. "Stanno sfaldando la nostra società matriarcale. Io forse dovrò rinunciare a essere madre, perché non bastano i soldi", dice Moira Murgia. Ha 31 anni e pascola tra i mirti da quando ne aveva quindici. È più veloce di un uomo, conosce il suono dei campanacci del gregge, ma ne sente sempre di meno perché ormai costano più delle pecore. È l'ultima terribile piaga dei pastori nell'era globale. Una generazione che potrebbe essere l'ultima, spiega l'autonomista Gianpiero Marras. Abita a Ittiri nel Logudoro. Attorno alle case di pietra ci sono 420 pastori e 60 mila pecore, come una media città italiana: "Senza tutto questo finirebbe la nazione sarda, scomparirebbero i discendenti dei popoli nuragici da cui vengono i nostri valori". Per lasciare posto al cemento miliardario che dalla Costa Smeralda sta colonizzando l'isola. Business, oligarchi, spiagge vip e champagne che non lasciano un solo euro in tasca ai pastori sardi. Spinti dagli orridi delle montagne di Orgosolo fin dentro il tunnel ancora più buio dei debiti.
di Tommaso Cerno
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-protestano-i-pastori/2137357//0
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