Canicattì, sindacalista si impicca con bandiera della Cgil
Giuseppe , 57 anni, di Canicattì, ex consigliere comunale del Pd e
attivista della Cgil, si è impiccato nella sede della camera del lavoro
in Corso Umberto, a Canicattì. Giuseppe ha lasciato una lettera dove
però non ha spiegato i motivi che lo hanno spinto a questo estremo
gesto. Il cadavere è stato trovato dal personale stesso ancora avvolto
dalla bandiera della Cgil usata da Palmeri per impiccarsi. Subito sono
stati avvertiti i soccorritori che, una volta giunti sul posto, non
hanno che potuto constatare il decesso dell’ex consigliere comunale.
Disoccupato, aveva scritto a Camusso e Napolitano. Aveva
raccolto i nomi di tutti i suicidi per lavoro, alla fine aveva messo il
suo
La Costituzione italiana, con dentro un foglietto:
l'elenco dei suicidi per lavoro degli ultimi due anni. E l'ultimo della
lista, scritta di suo pugno, è il suo stesso nome: Giuseppe .
Muratore e sindacalista Cgil, 61 anni, di Guarrato, paesino del
trapanese, Giuseppe ha deciso di togliersi la vita, impiccandosi nella
notte tra sabato e domenica scorsi. Non riusciva più a vivere senza
lavoro, prima ancora per un senso di dignità e di utilità sociale, che
per un bisogno economico: «Se non lavoro non ho dignità. Adesso mi tolgo
dallo stato di disoccupazione», le due frasi scritte nel foglio che ha
lasciato nella Carta che detta i fondamenti della nostra Repubblica.
E tra questi, il primo e più importante, è l'articolo uno: «L'Italia è
una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Questa frase, così
bella, negli ultimi anni deve essere rimbombata come un incubo
martellante nella testa di Giuseppe. Soprattutto da quando era entrato
in uno stato di profonda depressione, perché non c'era proprio modo di
trovare un lavoro.
Giuseppe aveva lavorato fin da bambino come
muratore, prima segando il marmo, poi costruendo mattoni. Aveva svolto
anche attività sindacale, nella Fillea Cgil, la categoria che segue gli
edili. L'ultimo contratto che riesce ad avere risale al 2000. Da
quell'anno in poi la cooperativa Celi di Santa Ninfa, nata dopo il
terremoto che nel 1968 aveva colpito la Valle del Belice, lo aveva
lasciato a casa perché non c'era più lavoro neanche per i soci. Per due
anni Giuseppe riceve così l'indennità di disoccupazione, di 700 euro al
mese, e poi niente altro. Magari lavoretti, per arrangiarsi e
arrotondare: non essendo sposato e non avendo figli quel sussidio basta,
almeno all'inizio. Ma la mancanza di un'occupazione gli fa comunque
male: non riesce a stare senza fare nulla. «Era l'unica cosa che lo
faceva sentire realizzato - raccontava ieri alla Repubblica il fratello
maggiore, Giovanni - Viveva la disoccupazione come una situazione di
oppressione».
Giuseppe non era stato fermo, negli ultimi anni,
anzi aveva cercato di reagire. Andava al sindacato, faceva parte del
direttivo provinciale della Fillea: parlava con i suoi colleghi, e a una
delle ultime assemblee del 2012, alla Cgil, aveva preso la parola.
Aveva parlato di quelli come lui, che «sono rimasti a casa», e sembrava
non arrendersi. Si era perfino speso per il rinnovo del contratto degli
edili, anche se in realtà, nel suo stato di prolungata disoccupazione,
era come se non lo riguardasse più. E ultimamente aveva scritto due
lettere: una alla segretaria della Cgil, Susanna Camusso, e l'altra a
Giorgio Napolitano, il primo cittadino, garante della Costituzione. I
carabinieri hanno trovato le missive nella sua tasca, domenica mattina,
allertati dal fratello.
Nelle lettere aveva espresso il suo
profondo disagio: «L'articolo 1 della Costituzione dice che l'Italia è
una Repubblica fondata sul lavoro. E allora perché lo Stato non mi aiuta
a trovare lavoro? Perché non mi toglie da questa condizione di
disoccupazione? Perché non mi restituisce la mia dignità?». Fino alla
minaccia, infine realizzata. «E allora se non lo fa lo Stato lo debbo
fare io...».
«Vedo ogni giorno negli occhi dei lavoratori la
paura di perdere il proprio posto - dice Walter Schiavella, segretario
generale della Fillea Cgil - Ma nella maggior parte dei casi vedo la
disperazione di non sapere come tirare avanti senza un'occupazione, o
con 700 euro di cassa integrazione o vendendo la propria fatica per 20
euro al giorno nei mercati illegali delle braccia. E allora ti chiedi
che ci stai a fare, come mai non riesci a fermare questa valanga
impazzita». Per il segretario del Pd Pierluigi Bersani, il suicidio di
Giuseppe «è stata una coltellata»: «Ci occuperemo di questo problema del
lavoro - aggiunge - senza promettere miracoli, ma facendo capire che si
parte da chi è in difficoltà». «Credo che oggi tutti i partiti
dovrebbero parlare solo di Giuseppe Burgarella - dice Antonio Ingroia,
candidato premier di Rivoluzione civile - Bisogna dare una risposta a
tutti gli italiani che subiscono gli effetti della crisi».
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