Precari, Il nostro tempo è adesso
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Il 9 aprile alcuni giovani precari italiani stanno organizzando una manifestazione nazionale intitolata Il nostro tempo è adesso – la vita non aspetta.
La ritengo una bella iniziativa, soprattutto perché non è organizzata da alcun partito, ma da associazioni e singoli che vivono la situazione della precarietà giovanile in Italia. Riporto qui alcuni stralci dell’appello lanciato per la mobilitazione: «Non c’è più tempo per l’attesa. E’ il tempo per la nostra generazione di prendere spazi e alzare la voce. Per dire che questo paese non ci somiglia, ma non abbiamo alcuna intenzione di abbandonarlo. Soprattutto nelle mani di chi lo umilia quotidianamente [..]
Siamo una generazione precaria: senza lavoro, sottopagati o costretti al lavoro invisibile e gratuito, condannati a una lunghissima dipendenza dai genitori. La precarietà per noi si fa vita, assenza quotidiana di diritti: dal diritto allo studio al diritto alla casa, dal reddito alla salute, alla possibilità di realizzare la propria felicità affettiva. Soprattutto per le giovani donne, su cui pesa il ricatto di una contrapposizione tra lavoro e vita.
Non siamo più disposti a vivere in un paese così profondamente ingiusto. Lo spettacolo delle nostre vite inutilmente faticose, delle aspettative tradite, delle fughe all’estero per cercare opportunità e garanzie che in Italia non esistono, non è più tollerabile. Come non sono più tollerabili i privilegi e le disuguaglianze che rendono impossibile la liberazione delle tante potenzialità represse. [..]
Vogliamo tutto un altro paese. Non più schiavo di rendite, raccomandazioni e clientele. Pretendiamo un paese che permetta a tutti di studiare, di lavorare, di inventare. Che investa sulla ricerca, che valorizzi i nostri talenti e la nostra motivazione, che sostenga economicamente chi perde il lavoro, chi lo cerca e chi non lo trova, chi vuole scommettere su idee nuove e ambiziose, chi vuole formarsi in autonomia. Vogliamo un paese che entri davvero in Europa»[1].
Ovviamente facendo parte di questa generazione e condividendone i problemi/soluzioni trovo questo appello intelligente, perché va al di là della lamentela e della retorica. Forse è proprio questo quello di cui abbiamo bisogno per costruire il nostro futuro e una nuova Italia: credere nei nostri sogni e smetterla di lamentarci di questa nostra condizione. Molte voci si sono levate in questa direzione, portando anche la CGIL della moderata Camusso a creare la campagna “NON +” (cioè, “giovani non più disposti a tutto”). Un’altra bella idea è quella dei giornalisti free lance non più disposti a lavorare gratis con la campagna “40×50: non lavoro per meno di 50 euro”.
Insomma sembra esserci una bella aria in giro e in quest’ottica rileggo anche con piacere un’iniziativa, questa volta editoriale, che nel giugno del 2008 vide la Fondazione Fare Futuro pubblicare un numero di Charta Minuta intitolato “Biografie di una nuova Italia” in cui venivano ospitati articoli che parlavano di giovani italiani famosi, che insomma “ce l’avevano fatta”.
Non mi piacque molto nel complesso, nonostante anche alcuni che avevano partecipato alle biografie erano persone che conoscevo: ovviamente era subito dopo la vittoria di Berlusconi ed essendo l’area finiana ancora vicina al Cavaliere l’idea era anche quella di far vedere un’Italia che cresceva. Guardando al presente non era vero. Poi i profili di questa “rivoluzione antropologica” non è che mi piacessero tanto: il mio amico Roberto Alfatti Appetiti si occupò di Gabriele Muccino ad esempio, ed essendo perfido notavo che il padre del regista era dirigente RAI e quindi non si poteva parlare proprio di una nuova Italia. Poi c’era Cannavaro e la Pausini ad esempio (purtroppo in rete non è più disponibile quel numero della rivista) e sempre a voler esser perfidi anche qui si poteva notare una cantante e un calciatore non erano una vera e propria rivoluzione antropologica.
Però probabilmente erano altri tempi e ammetto a volte di esser troppo rigido su alcuni punti di vista (infatti c’era anche Giovanni Allevi e anche Fiorello). Usando però lo ‘scheletro’ usato per quel numero, a questo punto mi permetto di raccontare due belle storie di ex giovani italiani, che possono essere per noi un incitamento per il futuro. Parlo di Tiziano Terzani ed Ettore Mo. Qualcuno ovviamente potrebbe obbiettare che sono malato di quella nostalgia, inquadrata bene dal Secolo d’Italia in un domenicale del novembre 2009 sul mito dei ‘quarantottini’. Non è il mio caso, e cito questi due esempi proprio perché neanche loro erano sicuri di poter entrare nella storia del giornalismo, potendo contare solo sui loro sforzi e sulla loro audacia.
Tiziano Terzani era nato poverissimo nel 1938 e poté studiare solo grazie a diverse borse di studio che gli permisero prima di fare l’università e poi di andare negli U.S.A. e per entrare nel mondo del giornalismo dovette lavorare con il Der Spiegel che lo inviò come corrispondente in Asia. Di Tiziano Terzani si sa quasi tutto oggi, essendo poi diventato, soprattutto dopo la sua morte, quasi un’icona del giornalismo e del pacifismo. In questi giorni a Roma c’è anche una mostra organizzata dal figlio con le foto che ha scattato in Oriente e raccolte anche in un bellissimo libro Un mondo che non esiste più (pubblicato da Longanesi) e il 1 aprile uscirà anche il film La fine è il mio inizio ispirato al libro-dialogo sulla morte scritto dal figlio Fosco.
Altra storia fantastica, e un po’ meno conosciuta è quella del vecio (ma ancor vivo) corrispondente estero del Corriere della Sera, Ettore Mo, che ha firmato bellissimi reportage di guerra soprattutto dall’Afghanistan di cui è stato grande esperto (e anche grande amico del generale Massud). Mo è nato a Borgomanero nel 1932 e prima di diventare un grande giornalista che ha girato il mondo con la sua Lettera 32 sempre nel tascapane ha fatto ogni genere di lavoro, raccontando la sua storia in un libro Ma nemmeno malinconia. Storia di una vita randagia (edito da Rizzoli) in cui ripercorre le tappe della sua gioventù: lascia l’università Ca’ Foscari a Venezia per recarsi nelle zone minerarie francesi dove gli italiani morivano sul lavoro, poi ha lavorato in un ristorante a Parigi, poi si è recato nelle isole inglesi più remote, poi ha insegnato francese in un collegio a Madrid, poi ha girato il Pays Vasco dei preti-indipendentisti contro Franco, poi bibliotecario ad Amburgo ed infermiere per incurabili a Londra. Infine lavorando come steward su una nave mercantile britannica, scrisse un articolo al corrispondente inglese del Corriere della Sera Piero Ottone che gli rispose «Lei sa tenere in mano la penna, si presenti qui appena scende dalla nave…». Nel 1962 si presentò a Londra, e cominciò la sua carriera da giornalista.
Forse erano altri tempi? Tempi d’oro in cui c’erano soldi da spendere e speranza da distribuire? Non credo, o forse non era solo quello. Le storie di questi due uomini sono un monito per andare oltre ciò che vediamo e pensiamo possibile. Rischiare l’impossibile insomma, cercare nuove strade di quella già percorse. Per i nostri sogni, per il nostro futuro e per tutta la nostra generazione il nostro tempo è adesso.
Simone Migliorato
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