Il testo della riforma del lavoro è stato, finalmente, partorito. Il risultato, però, è dei più tragici (per non dire tragicomici): non solo il testo, così com’è ora, riforma ben poco, ma – se si può – peggiora la situazione vigente, con un reintegro assolutamente inconsistente e nebuloso per quanto riguarda l’articolo 18, un potere arbitrario in mano ai giudici e meno restrizioni all’abuso di contratti temporanei. E l’apprendistato, così come concepito, rischia di non garantire un percorso verso la stabilità.
Il trio ABC, alla fine, ha sorriso. Soddisfatto. Convinto di aver fatto un’opera di mediazione, tra governo e parti sociali, degna della più alta politica. Frottole. Quello che abbiamo, infatti, è una riforma attorno alla quale ci si è gonfiati il petto con parole di orgoglio, ma che nei fatti riforma ben poco. Una non-riforma, potremmo dire. Ma andiamo a vedere cosa prevede la riforma nei suoi ambiti principali: articolo 18, reintegro e indennità, precariato e, infine, apprendistato.
ARTICOLO 18, CLAMORO PASSO INDIETRO. TANTE PAROLE E POCA CHIAREZZA. AD AMMETTERLO LO STESSO MONTI – Alla fine si è deciso di reinserire il reintegro nell’articolo 18. Il testo parla chiaro: in caso di licenziamento discriminatorio, economico o disciplinare illegittimo, il giudice “ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”. Tutto risolto, sembrerebbe. E invece no.
Nei fatti a decidere se sia il caso di reintegrare sarà il giudice. E, a quanto pare, in maniera del tutto arbitraria. Nella riforma, infatti, si dice che il giudice, per quanto riguarda il licenziamento economico, è tenuto ad applicare il reintegro immediato “nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo”. Ma in cosa consista questa insussistenza non è specificato. Stesso dicasi per il licenziamento disciplinare: reintegro previsto se “il fatto non sussiste”. Tante parole, dunque, ma poca chiarezza. Ad ammetterlo, d’altronde, è stato lo stesso Mario Monti. Le sue parole durante la conferenza stampa di presentazione del testo – sebbene nessun giornale le abbia riprese - lasciano intendere molto. “Il nuovo articolo 18 della Fornero – ha detto - è illeggibile e di difficile comprensione, da lasciare senza fiato. Dal reintegro per legge si passa, infatti, sempre per legge, al reintegro incomprensibile”.
Che un Presidente del Consiglio apostrofi in questo modo una riforma del suo stesso governo dovrebbe far riflettere. Ma andiamo oltre. C’è da chiedersi infatti perché, allo stesso tempo, Monti ha parlato anche di “svolta storica”. Sembrerebbe paradossale. Qualche suggerimento, tuttavia, potrebbe arrivare da quanto detto in seguito dallo stesso premier. Sempre commentando la riforma, infatti, ha aggiunto: “Le imprese sono insoddisfatte perché avrebbero voluto la sparizione della parola reintegro, ma col tempo capiranno che ciò avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”. Insomma, come a dire: care imprese, il reintegro c’è, ma vedrete che le condizioni sono così aleatorie e nebulose che nessuno vi ricorrerà.
LA BEFFA DEL REINTEGRO: COSI’ COM’E’ CONCEPITO NESSUNO FARA’ RICORSO – Ma andiamo oltre. Cosa potrebbe succedere se un lavoratore licenziato ingiustamente facesse ricorso nonostante la poca chiarezza? Le condizioni imposte dalla riforma, infatti, sono tutt’altro che convenienti per il lavoratore.
Ammettiamo, ad esempio, che i lavoratori riescano ad ottenere il reintegro. Nel testo si legge che l’indennità risarcitoria sarà “commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non potrà essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”. Consideriamo, ora, i tempi della giustizia italiana: in un Paese in cui i processi, come documentato alcuni giorni fa da Il Sole 24 Ore, durano anche più di dieci anni, come potrebbe un lavoratore accettare un risarcimento di sole 12 mensilità? Senza dimenticare, poi, che da tale risarcimento sono previste deduzioni nel caso non sia riuscito a trovare un nuovo lavoro. E chi lo deciderà? Ancora il giudice, in maniera del tutto arbitraria. Pensiamo, ora, a quante famiglie nel nostro Paese campano sulle spalle di un solo lavoratore, magari operaio. Avrà costui la possibilità di fare ricorso, attendere per anni l’esito di un processo e vedersi, poi, risarcire per sole 12 mensilità (se tutto va bene)?
E NEL CASO DI NON REINTEGRO? L’INDENNIZZO VIENE RIDOTTO. COME RICHIESTO DA CONFINDUSTRIA - Nel caso in cui il giudice decida che il fatto non sussista e che, dunque, il lavoratore non abbia diritto al reintegro, come sappiamo, riceverà un indennizzo. Ma anche qui il testo presenta pesanti passi indietro. Se infatti nel testo presentato a marzo l’entità degli indennizzi andava dalle 15 alle 27 mensilità, ora viene sensibilmente ridotto. Si legge nel testo: nel caso in cui si accerti che “non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro”, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di “un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”. Si passa, dunque, da 15-27 a 12-24 mensilità. È facile intendere il motivo di questa riduzione: è il prezzo da pagare per il reintegro nel caso di licenziamento illegittimo (sebbene, abbiamo visto, contemplato solo a parole). Il contentino per le aziende, in pratica.
LE FALSE PROMESSE AI PRECARI – Per quanto riguarda quella grande sacca di lavoratori atipici (oltre 5 milioni) nessun aiuto previsto. Come già abbiamo avuto modo di documentare, infatti, nonostante il segno ufficiale della riforma sia di contrasto al precariato, a leggere nei dettagli il testo c’è il rischio di una liberalizzazione che renda il precariato stesso ancora più stabile di quanto non lo sia. A favore, ancora una volta, delle imprese. Come ci ha detto, infatti, il professore Franco Scarpelli, docente di diritto del lavoro all’Università di Milano – Bicocca, “si dice che si è voluto contrastare la cattiva flessibilità a favore di una buona flessibilità. Peccato che un po’ a sorpresa – e questa è una cosa che in pochissimi hanno notato – è entrata una regola, quella che prevede che il primo contratto a termine non debba essere giustificato dall’impresa, quella che in pratica toglie la causale del primo contratto a termine, che è una cosa che sostanzialmente liberalizza il primo contratto a termine”.
Si legge, infatti, nel testo della riforma: “il requisito di cui al comma 1 (che prevede appunto la causale, ndr) non è richiesto nell’ipotesi del primo rapporto a tempo determinato di durata non superiore a sei mesi, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore”. In sostanza, dunque, si liberalizzano i contratti a tempo determinato, permettendo alle imprese di poter passare da un lavoratore all’altro senza assumere nessuno a tempo indeterminato.
Si dirà: questo non accadrà perché è stato previsto (art.36 del testo) un aumento delle aliquote contributive per i collaboratori. Tale aumento, a carico delle imprese, dal 27% passerà “al 33 per cento a decorrere dall’anno 2018”. Ma sarà davvero a carico dei datori di lavoro? Poco probabile. Come denunciato dalla Nidil-Cgil, infatti, è facile pensare che a pagare saranno ancora loro, i lavoratori. Un esempio chiarificatore: poniamo che un’impresa paghi mille euro un collaboratore a progetto, a cui al netto arrivano 900 euro dopo il pagamento degli oneri; il prezzo del lavoro, come quello di altri fattori economici, raramente si può determinare dall’alto, con legge, e il rischio è che, alzando l’onere contributivo a carico dell’impresa, il datore di lavoro semplicemente decida di mantenere immutato il salario lordo e, quindi, molto semplicemente farà arrivare in tasca allo stesso identico dipendente precario meno soldi. Purtroppo, per il lavoratore precario il posto di lavoro non è una scelta, è una necessità; ed è realistico che accetti anche una (ulteriore) decurtazione al suo salario.
APPRENDISTATO, INGRESSO NEL LAVORO PER I GIOVANI? SI’, MA COL TRUCCO – I dati della disoccupazione giovanile, come sappiamo, sono spaventosi. L’ultima rivelazione Istat parla di un tasso del 31,9%. Un problema a riguardo, ad esempio, è il ricorso all’utilizzo scorretto di forme contrattuali, soprattutto di lavoro non subordinato come i contratti a progetto o le cosiddette partite iva, ovvero i contratti di collaborazione professionale, o ancora gli stages. Per evitare questa patologia, il governo ha pensato bene di fare leva sull’apprendistato, come canale di ingresso verso la stabilità. Peccato, però, che anche qui ritroviamo falle significative. In effetti, a ben leggere il testo della riforma, si potrebbe essere licenziati alla scadenza del percorso formativo senza ricevere alcun compenso. È possibile per il datore, infatti, recedere il contratto “durante il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa”. Ma chi deciderà il “licenziamento per giusta causa”? Il giudice, ancora una volta. In maniera del tutto arbitraria.
di Carmine Gazzanni
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