L’epurazione mirata
di tre operai Fiom
Difficilmente le motivazioni di una sentenza per una causa di lavoro stuzzicano l’attenzione generale. Quelle con cui i giudici di Potenza hanno spiegato l’ordine di «reintegro sul posto di lavoro» dei tre operai della Fiat-Sata di Melfi, invece, ha tutti i crismi del «caso esemplare». E cade nel pieno di una discussione politica nervosa, spesso apertamente falsificatoria della realtà, ma dalle conseguenze pericolosissime sulla vita di decine di milioni di persone: i lavoratori dipendenti di ogni ordine e grado, con ogni tipo di contratto, precari o stabili, manuali o «immateriali».
I fatti. Il 7 luglio del 2010, in piena inaugurazione del «modello Pomigliano», dentro la fabbrica lucana c’era stato un sciopero spontaneo, di quelli motivati da motivi pratici urgenti: una «linea» che corre troppo, un turno con troppa poca gente, ecc. Lo fanno in tanti operai, iscritti e delegati di diversi sindacati. La discussione con il «capo» che interviene subito è come al solito chiara e da parte operaia – come avviene in Fiat – molto attenta a rispettare i confini oltre cui l’azienda usa far scattare «sanzioni disciplinari». Pochi giorni dopo vengono licenziati in tre:Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, i primi due delegati Fiom, il terzo soltanto iscritto. La Fiat invoca «motivi disciplinari», diremmo oggi: aver ostacolato il percorso di un carrello robotizzato che avrebbe potuto portare pezzi per gli operai che invece non stavano scioperando.
Ricorso immediato al giudice, che dà loro ragione e ne ordina la riassunzione. Ricorso Fiat, con testimoni che improvvisamente cambiano versione, e temporanea vittoria Fiat. Controricorso Fiom al tribunale di Potenza e, il 23 febbraio scorso, nuova sentenza di «reintegra». Ma la Fiat non li fa tornare al lavoro, pur pagando lo stipendio. Scelta solo politica, non «produttiva», dunque.
Ora i giudici di Potenza spiegano che i tre «non hanno avuto nessun gesto di sfida nei confronti dell’azienda». Di più: «hanno esercitato un diritto costituzionalmente garantito» – quello di sciopero – «senza valicarne i limiti» e insieme ad altri operai, cui però la Fiat «non ha contestato nulla». Conclusione logica: il licenziamento dei tre rappresenta «nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo». Licenziamenti «discriminatori», dunque, con «conseguente immediato pregiudizio per l’azione e la libertà sindacale».
Il problema che questa sentenza è chiarissimo: due anni fa, quando ancora l’art. 18 era un congegno «blindato» di tutela dei lavoratori, la più grande industria italiana ha utilizzato l’unica motivazione per licenziare che le potesse dare qualche chance davanti al giudice: «danno volontario alla produzione», che rientra tra i motivi disciplinari. Tre procedimenti hanno permesso di accertare che quel danno non c’è stato (se non come conseguenza naturale di uno sciopero legittimo) e che quindi la Fiat ha dato una motivazione falsa pur di liberarsi di tre «rompiscatole».
Oggi la Fiat utilizzerebbe i «motivi economici», senza star lì a cercare un casus belli difficilmente dimostrabile in tribunale (come si è visto…). Pagherebbe come indennizzo più o meno quello che ha pagato in stipendi finora e via. Se qualcuno vuol davvero capire perché l’articolo 18 non deve essere modificato, ha qui il migliore degli esempi. Da studiare.
Francesco Piccioni - il manifesto
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