I rifiuti sotto i manifesti elettorali. Scricchiola il consenso di Berlusconi
Tonia Limatola
Sotto il sole cocente in Campania crescono i cumuli di spazzatura e diminuisce il consenso di Berlusconi, che proprio sull'«emergenza rifiuti» aveva incentrato la sua campagna elettorale, facendone il cavallo di battaglia. L'emergenza c'è ancora, la raccolta differenziata non è ancora partita e le inchieste sui rifiuti fanno discutere.
Berlusconi aveva fatto della risoluzione dell’emergenza rifiuti in Campania il suo cavallo di battaglia elettorale e l’anno scorso aveva strappato al centrosinistra decine di Comuni impegnati nelle amministrative. Ora, sotto il sole cocente di maggio, la propaganda si fa ancora più aspra e calda in vista del rinnovo dei vertici della Provincia di Napoli e delle Europee. Anche perché i cumuli di spazzatura, che non erano mai spariti, adesso stanno crescendo a dismisura un po’ ovunque e lo testimoniano anche le decine di video pubblicati dai cittadini su youtube.
Nel Casertano, ad Aversa, ma anche e soprattutto nel napoletano, tra Giugliano, Quarto, Marano, Villaricca e Qualiano. Rifiuti che bruciano agli angoli delle strade mentre quelli rimossi ingolfano l’ex Cdr della zona Asi, ora diventato impianto di tritovagliatura [Stir]. E qui, nei comuni che ospitano il maggior numero di impianti per lo smaltimento e di discariche autorizzate realizzate in Italia, la presenza di quelle abusive in strada è una vera beffa per chi ci vive accanto. La situazione non migliora nemmeno nei luoghi del turismo.
E’ salva solo Napoli, vetrina del maggio dei monumenti e, a metà giugno, sede del G8 dei Capi di Stato; mentre ad Ercolano è assediato dai rifiuti anche l’ingresso degli scavi archeologici. Così mentre nel resto d’Italia Berlusconi si conferma l’uomo dei consensi con percentuali che inquietano gli osservatori politici di centrosinistra, in Campania il premier rischia di vedere scricchiolare la sua popolarità sotto i colpi dei sacchetti di spazzatura, specie nel napoletano.
A far storcere il naso non è solo la puzza. Il dissenso arriva anche dopo l’inutile attesa dell’avvio della raccolta differenziata che, fatta eccezione di qualche piccola esperienza, resta ancora un miraggio. Nel giuglianese le situazioni di allarme sono tante. C’è un’intesa col Ministero dell’Ambiente per la bonifica. Ci sarebbero anche i fondi. Ma i cumuli sono ancora al loro posto e si continuano a gettare carta e plastica nei sacchetti del «tal quale». Non sono spariti manco i roghi che hanno regalato l’appellativo di «terra dei fuochi» a queste zone. Insomma, la Campania è di nuovo sull’orlo di una nuova crisi e per il premier sarà difficile arginarla.
Fanno discutere anche le vicende giudiziarie dopo gli ultimi sviluppi del caso aperto dieci mesi fa con lo stralcio delle posizioni dei prefetti Guido Bertolaso e Alessandro Pansa dall’elenco degli imputati dell’inchiesta rifiuti. Un provvedimento che ha spaccato la Procura di Napoli e la diversità di posizioni tra il capo dell’ufficio giudiziario, Lepore, e i pm Giuseppe Novelli e Paolo Sirleo, titolari dell’indagine «Rompiballe», animerà il dibattito dell’assemblea alla quale si preparano i pm napoletani. In pratica, un’emergenza dentro un’altra.
Eppure dopo la crisi dell’anno scorso e l’apertura con la forza della contestatissima discarica di Chiaiano, per il governo la questione sembrava veramente archiviata. Impegni e promesse: un nulla di fatto. Adesso, a giusto un anno dalle cariche della polizia, i comitati contro la discarica di Chiaiano, assieme al movimento «Verso i rifiuti zero», hanno deciso di farsi sentire con una nuova iniziativa di protesta creativa. Avevano intenzione di invitare i cittadini a disertare le urne e, invece, hanno deciso di boicottare le elezioni distribuendo un «kit elettorale» sui generis. Lo presenteranno domani alle 12, nella storica caffetteria Gambrinus in Piazza Trieste e Trento, a Napoli. «Da tempo abbiamo deciso il boicottaggio delle elezioni sul territorio di Marano e Chiaiano. Sul restringimento degli spazi di democrazia, si è consumata una rottura insanabile tra cittadini e governanti – dice uno dei leader, Antonio Musella – Ma abbiamo comunque deciso di partecipare alle elezioni, attaccando sulla scheda un adesivo con il nostro alberello, ormai simbolo della nostra lotta». Insomma, si punta all’annullamento delle schede. Sull’adesivo c’è la scritta «Vota per me, i governi cambiano io sto sempre qua. No alla discarica». Cinquantamila esemplari verranno distribuiti da domani fino a sabato prossimo. Per il giorno di chiusura della campagna elettorale, il 4 giugno, i comitati hanno messo in calendario una serie di concerti, dalle 16 alle 19: alla stazione metro di Chiaiano, sul corso Chiaiano, in Piazza della Pace, a Marano.
Nel frattempo alla voce raccolta differenziata, si registra anche la protesa dei lavoratori dei bacino. Nel Consorzio numero 1, quello di Giugliano per intenderci, ci sono 180 dipendenti pagati e non inutilizzati che lottano – oggi l’ennesima protesta davanti all’ingresso della loro sede nella zona Asi – contro le logiche dei comuni che preferiscono affidare il servizio alle ditte vincitrici degli appalti della Nu. Per il momento vengono stipendiati dal commissariato di governo, ma col tempo rischiano di rimanere senza occupazione.
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venerdì 29 maggio 2009
giovedì 28 maggio 2009
Saras. La raffineria killer
Saras. La raffineria killer, i Cip 6 e l'Inter
Eleonora Formisani
E' la raffineria più grande del Mediterraneo di proprietà della famiglia Moratti. Lì ieri sono morti tre operai. Ora la Saras è sotto inchiesta, anche per inquinamento. Ma forse pochi sanno che attraverso una sua controllata, la Sarlux, la società produce energia elettrica bruciando «Tar», olio combustibile pesante. Nonostante ciò può avvalersi degli incentivi per i «Cip6».
Lo scenario è la raffineria più grande del Mediterraneo, la Saras di Sarroch, in provincia di Cagliari, di proprietà dei petrolieri Moratti, fondata nel 1962 da Angelo Moratti [già presidente dell’Inter], oggi di proprietà di Gianmarco e Massimo Moratti, patron dell‘Inter.
Qui 1600 operai lavorano petrolio grezzo che esce dallo stabilimento in barili, se ne contano 300 mila l’anno. Qui ieri hanno perso la vita Gigi Solinas, Bruno Muntoni e Daniele Melis, stroncati all’interno di una cisterna dalle esalazioni tossiche. Anidride solforosa? Saranno i giudici a stabilirlo dopo la conclusione delle indagini aperte dalla Procura di Cagliari per accertare eventuali responsabilità sulla morte degli operai, dipendenti della Comesa, una ditta esterna che lavora per la Saras.
Per protestare contro l’ennesima strage sul lavoro questa mattina i lavoratori della Saras hanno manifestato davanti ai cancelli della raffineria ma i sindacati confederali, riuniti a Tramatza nell’oristanese, potrebbero decidere di indire lo sciopero generale in tutta l’isola. La Fiom ha anche annunciato che si costituirà parte civile in un eventuale processo. Lo sciopero proseguirà anche domani e venerdì prossimo, giorno in cui potrebbero svolgersi i funerali delle vittime.
Quella di Sarroch per molti è stata una tragedia annunciata. «Da anni abbiamo lanciato l’allarme sulla sicurezza degli impianti della Saras e sui livelli di inquinamento che questi producono, allarme rimasto inascoltato se non addirittura deriso e rimproverato», ha dichiarato il presidente della Provincia di Cagliari, Graziano Milia [centrosinistra]. E proprio pochi giorni prima della tragedia la raffineria è finita sotto inchiesta, riporta la Nuova Sardegna, grazie a «Oil» un documentario prodotto e diretto da Massimiliano Mazzotta che racconta cosa veramente succede all’interno dell’impianto e le presunte conseguenze sulla salute degli operai e degli abitanti di Sarroch.
70 minuti in cui un ricercatore fiorentino, Annibale Biggeri, mette in relazione la percentuale dei decessi dovuti a malattie tumorali nella zona industriale attorno alla raffineria con l’attività degli stabilimenti. «Una maggiore incidenza di patologie tumorali e respiratorie rispetto alla media regionale», spiega Biggeri che, studiando i dati dell’Istat sulla mortalità dal 1981 al 2001 e quelli sui ricoveri ospedalieri dal 2001 al 2003, pubblica il «Rapporto Sarroch Ambiente e Salute». E’ tutto lì. Petroliere che attraccano, vanno e vengono trasportando petrolio grezzo. Petrolio ma non solo perché la Saras – attraverso la controllate Sarlux r.r.l. – da qualche anno è entrata nella nel settore dell’energia elettrica che produce usando gli scarti della raffinazione. E’ il «Tar» detto anche «olio combustibile pesante», un combustibile altamente inquinante.
E’ questo il carburante che tiene in vita il progetto della Sarlux che consente di generare energia elettrica per una potenza installata pari a 550 megawatt ed una produzione in esercizio sui quattro miliardi di chilowattora l’anno. La maggior parte della sua produzione [450 megawatt su 550] viene utilizzata dall’Enel.
Per la legge italiana l’impianto Sarlux [una joint-venture tra Saras con l’americana Enron Corp] produce fonti rinnovabili. La Sarlux è un’altra scatola cinese, la società infatti possiede l’impianto Igcc [impianto di gassificazione integrata a ciclo combinato] e attraverso Parchi Eolici Ulassai S.r.l. [tramite la controllata Sardeolica S.r.l.] la quale possiede e gestisce il parco eolico sito nel Comune di Ulassai in Sardegna, produce fonti rinnovabili.
E producendo fonti rinnovabili la Sarlux può avvalersi degli incentivi per i «Cip6», il perverso meccanismo che dell’incentivo alle fonti rinnovabili ma anche – appunto – alle assimilate: centrali elettriche a ciclo combinato alimentate con il metano oppure con il gas ottenuto dalla gassificazione dei residui di raffineria.
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Eleonora Formisani
E' la raffineria più grande del Mediterraneo di proprietà della famiglia Moratti. Lì ieri sono morti tre operai. Ora la Saras è sotto inchiesta, anche per inquinamento. Ma forse pochi sanno che attraverso una sua controllata, la Sarlux, la società produce energia elettrica bruciando «Tar», olio combustibile pesante. Nonostante ciò può avvalersi degli incentivi per i «Cip6».
Lo scenario è la raffineria più grande del Mediterraneo, la Saras di Sarroch, in provincia di Cagliari, di proprietà dei petrolieri Moratti, fondata nel 1962 da Angelo Moratti [già presidente dell’Inter], oggi di proprietà di Gianmarco e Massimo Moratti, patron dell‘Inter.
Qui 1600 operai lavorano petrolio grezzo che esce dallo stabilimento in barili, se ne contano 300 mila l’anno. Qui ieri hanno perso la vita Gigi Solinas, Bruno Muntoni e Daniele Melis, stroncati all’interno di una cisterna dalle esalazioni tossiche. Anidride solforosa? Saranno i giudici a stabilirlo dopo la conclusione delle indagini aperte dalla Procura di Cagliari per accertare eventuali responsabilità sulla morte degli operai, dipendenti della Comesa, una ditta esterna che lavora per la Saras.
Per protestare contro l’ennesima strage sul lavoro questa mattina i lavoratori della Saras hanno manifestato davanti ai cancelli della raffineria ma i sindacati confederali, riuniti a Tramatza nell’oristanese, potrebbero decidere di indire lo sciopero generale in tutta l’isola. La Fiom ha anche annunciato che si costituirà parte civile in un eventuale processo. Lo sciopero proseguirà anche domani e venerdì prossimo, giorno in cui potrebbero svolgersi i funerali delle vittime.
Quella di Sarroch per molti è stata una tragedia annunciata. «Da anni abbiamo lanciato l’allarme sulla sicurezza degli impianti della Saras e sui livelli di inquinamento che questi producono, allarme rimasto inascoltato se non addirittura deriso e rimproverato», ha dichiarato il presidente della Provincia di Cagliari, Graziano Milia [centrosinistra]. E proprio pochi giorni prima della tragedia la raffineria è finita sotto inchiesta, riporta la Nuova Sardegna, grazie a «Oil» un documentario prodotto e diretto da Massimiliano Mazzotta che racconta cosa veramente succede all’interno dell’impianto e le presunte conseguenze sulla salute degli operai e degli abitanti di Sarroch.
70 minuti in cui un ricercatore fiorentino, Annibale Biggeri, mette in relazione la percentuale dei decessi dovuti a malattie tumorali nella zona industriale attorno alla raffineria con l’attività degli stabilimenti. «Una maggiore incidenza di patologie tumorali e respiratorie rispetto alla media regionale», spiega Biggeri che, studiando i dati dell’Istat sulla mortalità dal 1981 al 2001 e quelli sui ricoveri ospedalieri dal 2001 al 2003, pubblica il «Rapporto Sarroch Ambiente e Salute». E’ tutto lì. Petroliere che attraccano, vanno e vengono trasportando petrolio grezzo. Petrolio ma non solo perché la Saras – attraverso la controllate Sarlux r.r.l. – da qualche anno è entrata nella nel settore dell’energia elettrica che produce usando gli scarti della raffinazione. E’ il «Tar» detto anche «olio combustibile pesante», un combustibile altamente inquinante.
E’ questo il carburante che tiene in vita il progetto della Sarlux che consente di generare energia elettrica per una potenza installata pari a 550 megawatt ed una produzione in esercizio sui quattro miliardi di chilowattora l’anno. La maggior parte della sua produzione [450 megawatt su 550] viene utilizzata dall’Enel.
Per la legge italiana l’impianto Sarlux [una joint-venture tra Saras con l’americana Enron Corp] produce fonti rinnovabili. La Sarlux è un’altra scatola cinese, la società infatti possiede l’impianto Igcc [impianto di gassificazione integrata a ciclo combinato] e attraverso Parchi Eolici Ulassai S.r.l. [tramite la controllata Sardeolica S.r.l.] la quale possiede e gestisce il parco eolico sito nel Comune di Ulassai in Sardegna, produce fonti rinnovabili.
E producendo fonti rinnovabili la Sarlux può avvalersi degli incentivi per i «Cip6», il perverso meccanismo che dell’incentivo alle fonti rinnovabili ma anche – appunto – alle assimilate: centrali elettriche a ciclo combinato alimentate con il metano oppure con il gas ottenuto dalla gassificazione dei residui di raffineria.
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mercoledì 27 maggio 2009
Terra Futura
Cos’è Terra Futura?
Terra Futura è una grande mostra-convegno strutturata in un’area espositiva, di anno in anno più ampia e articolata, e in un calendario di appuntamenti culturali di alto spessore, tra convegni, seminari, workshop; e ancora laboratori e momenti di animazione e spettacolo.
Nata dall’obiettivo comune di garantire un futuro al nostro pianeta – e di farlo insieme –, la manifestazione mette al centro le tematiche e le “buone pratiche” della sostenibilità sociale, economica e ambientale, attuabili in tutti i campi: dalla vita quotidiana alle relazioni sociali, dal sistema economico all’amministrazione della cosa pubblica...
Terra Futura vuole far conoscere e promuovere tutte le iniziative che già sperimentano e utilizzano modelli di relazioni e reti sociali, di governo, di consumo, produzione, finanza, commercio sostenibili: pratiche che, se adottate e diffuse, contribuirebbero a garantire la salvaguardia dell’ambiente e del pianeta, e la tutela dei diritti delle persone e dei popoli.
È un evento internazionale perché intende allargare e condividere la diffusione delle buone pratiche a una dimensione globale; perché internazionali sono i numerosi membri del suo comitato di garanzia, la dimensione dei temi trattati e i relatori chiamati ad intervenire ai tavoli di dibattito e di lavoro; infine, perché lo sono i progetti e le esperienze presenti o rappresentati ampiamente nell’area espositiva, che ospita realtà italiane ed estere.
Numerosi e importanti i consensi raccolti negli anni. Oltre 94.000 i visitatori dell’edizione 2008, 550 le aree espositive con più di 5000 enti rappresentati; 160 gli eventi culturali in calendario e 850 i relatori presenti, fra esperti e testimoni di vari ambiti di livello internazionale.
La sesta edizione di Terra Futura si svolgerà sempre alla Fortezza da Basso, a Firenze, dal 29 al 31 maggio 2009.
ORARI:
venerdì 29 maggio ore 9.00-20.00
sabato 30 maggio ore 9.00-22.00
domenica 31 maggio ore 10.00-20.00
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Terra Futura è una grande mostra-convegno strutturata in un’area espositiva, di anno in anno più ampia e articolata, e in un calendario di appuntamenti culturali di alto spessore, tra convegni, seminari, workshop; e ancora laboratori e momenti di animazione e spettacolo.
Nata dall’obiettivo comune di garantire un futuro al nostro pianeta – e di farlo insieme –, la manifestazione mette al centro le tematiche e le “buone pratiche” della sostenibilità sociale, economica e ambientale, attuabili in tutti i campi: dalla vita quotidiana alle relazioni sociali, dal sistema economico all’amministrazione della cosa pubblica...
Terra Futura vuole far conoscere e promuovere tutte le iniziative che già sperimentano e utilizzano modelli di relazioni e reti sociali, di governo, di consumo, produzione, finanza, commercio sostenibili: pratiche che, se adottate e diffuse, contribuirebbero a garantire la salvaguardia dell’ambiente e del pianeta, e la tutela dei diritti delle persone e dei popoli.
È un evento internazionale perché intende allargare e condividere la diffusione delle buone pratiche a una dimensione globale; perché internazionali sono i numerosi membri del suo comitato di garanzia, la dimensione dei temi trattati e i relatori chiamati ad intervenire ai tavoli di dibattito e di lavoro; infine, perché lo sono i progetti e le esperienze presenti o rappresentati ampiamente nell’area espositiva, che ospita realtà italiane ed estere.
Numerosi e importanti i consensi raccolti negli anni. Oltre 94.000 i visitatori dell’edizione 2008, 550 le aree espositive con più di 5000 enti rappresentati; 160 gli eventi culturali in calendario e 850 i relatori presenti, fra esperti e testimoni di vari ambiti di livello internazionale.
La sesta edizione di Terra Futura si svolgerà sempre alla Fortezza da Basso, a Firenze, dal 29 al 31 maggio 2009.
ORARI:
venerdì 29 maggio ore 9.00-20.00
sabato 30 maggio ore 9.00-22.00
domenica 31 maggio ore 10.00-20.00
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martedì 26 maggio 2009
l'assassinio della libertà di informazione
Un delitto perfetto: l'assassinio della libertà di informazione
di Enrico Fierro
L'hanno chiamata legge "ammazzanotizia" e il nome è azzeccato. Quando verrà approvata dal Parlamento il lavoro dei giornalisti subirà un colpo durissimo, quasi mortale. E con il lavoro dei cronisti finirà il diritto dell'opinione pubblica di essere informata per tempo sui grandi fatti di cronaca e sugli abusi di chi amministra e governa.
Per tempo, dicevo, perché quando il bavaglio sarà legge non potremo pubblicare (e voi non potrete leggere) nessun atto giudiziario fino al processo. Gli atti di indagine preliminare (intercettazioni, valutazioni dei pm, interrogatori degli imputati, contenuto delle perizie) non potranno essere pubblicati neppure in maniera "parziale o per riassunto...anche se non sussiste più il segreto". Bisognerà attendere che inizi il processo, almeno 4 o 5 anni (se va bene) per sapere qualcosa.
Tutto avverrà al buio, nella più totale ignoranza dell'opinione pubblica. L'assessore Tizio ha rubato, ha trescato con l'imprenditore Caio, ha preso tangenti per la fornitura di materiale medico destinato all'ospedale X (che semmai da anni è un esempio di malasanità) un pm (del quale non si potrà fare il nome) lo ha arrestato, ebbene: nessuno potrà saperlo. Il giornalista che dovesse (come accade oggi) violare la legge rischierebbe 1 anno di arresto e una multa di 10mila euro.
E' solo un tassello (non trascurabile) del disegno autoriotartio che il governo Berlusconi sta con tenacia perseguendo.
Pugno duro sugli immigrati, ronde di privati cittadini, medici-poliziotti, manganellate ai lavoratori che protestano: è questa la ricetta dell'Orgia del potere berlusconiano (titolo de L'Espresso di questa settimana).
Che fare? Appellarsi all'opinione pubblica. Anche se per i giornalisti è difficile. La categoria ha perso molto del suo smalto e non esercita più alcun fascino presso la gente comune.
In Italia si legge poco (molto meno che negli altri paesi europei), i giornali rimangono spesso accatastati nelle edicole, invenduti. La gente si informa con le tv, pochi (al di là delle illusioni dei tifosi della Rete) su internet.
Quotidiani e settimanali di informazione spesso vengono fatti solo per il Palazzo (sempre più chiacchiericcio politico, sempre meno Paese reale). La categoria è divisa, incerta sul suo futuro (il contratto nazionale, scaduto da anni, non è stato ancora rinnovato), insomma, ci sono tutti gli ingredienti perché la legge ammazzanotizie passi nella più totale indifferenza dell'opinione pubblica. Il rischio c'è ed è concreto.
E allora siamo noi giornalisti che dobbiamo darci una mossa. Dimostrare ai lettori che siamo in prima fila per difendere l'essenza del nostro lavoro. Come? La fantasia potrà suggerire mille forme di lotta.
Per quanto mi riguarda me ne viene in mente una: mettiamoci d'accordo in tanti (per una volta superiamo le nostre divisioni e le gelosie individuali) e, appena pubblicata la legge sulla Gazzetta ufficiale, violiamola apertamente.
Prendiamo una inchiesta e pubblichiamola come abbiamo sempre fatto. Mettiamo tutto su carta: accuse, nomi degli accusati, tesi della difesa e dei pm, raccontiamo il "contesto".
Ci dovranno arrestare, multare, se saremo in tanti sarà un colpo durissimo all'immagine di questo governo di fronte al mondo intero.
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di Enrico Fierro
L'hanno chiamata legge "ammazzanotizia" e il nome è azzeccato. Quando verrà approvata dal Parlamento il lavoro dei giornalisti subirà un colpo durissimo, quasi mortale. E con il lavoro dei cronisti finirà il diritto dell'opinione pubblica di essere informata per tempo sui grandi fatti di cronaca e sugli abusi di chi amministra e governa.
Per tempo, dicevo, perché quando il bavaglio sarà legge non potremo pubblicare (e voi non potrete leggere) nessun atto giudiziario fino al processo. Gli atti di indagine preliminare (intercettazioni, valutazioni dei pm, interrogatori degli imputati, contenuto delle perizie) non potranno essere pubblicati neppure in maniera "parziale o per riassunto...anche se non sussiste più il segreto". Bisognerà attendere che inizi il processo, almeno 4 o 5 anni (se va bene) per sapere qualcosa.
Tutto avverrà al buio, nella più totale ignoranza dell'opinione pubblica. L'assessore Tizio ha rubato, ha trescato con l'imprenditore Caio, ha preso tangenti per la fornitura di materiale medico destinato all'ospedale X (che semmai da anni è un esempio di malasanità) un pm (del quale non si potrà fare il nome) lo ha arrestato, ebbene: nessuno potrà saperlo. Il giornalista che dovesse (come accade oggi) violare la legge rischierebbe 1 anno di arresto e una multa di 10mila euro.
E' solo un tassello (non trascurabile) del disegno autoriotartio che il governo Berlusconi sta con tenacia perseguendo.
Pugno duro sugli immigrati, ronde di privati cittadini, medici-poliziotti, manganellate ai lavoratori che protestano: è questa la ricetta dell'Orgia del potere berlusconiano (titolo de L'Espresso di questa settimana).
Che fare? Appellarsi all'opinione pubblica. Anche se per i giornalisti è difficile. La categoria ha perso molto del suo smalto e non esercita più alcun fascino presso la gente comune.
In Italia si legge poco (molto meno che negli altri paesi europei), i giornali rimangono spesso accatastati nelle edicole, invenduti. La gente si informa con le tv, pochi (al di là delle illusioni dei tifosi della Rete) su internet.
Quotidiani e settimanali di informazione spesso vengono fatti solo per il Palazzo (sempre più chiacchiericcio politico, sempre meno Paese reale). La categoria è divisa, incerta sul suo futuro (il contratto nazionale, scaduto da anni, non è stato ancora rinnovato), insomma, ci sono tutti gli ingredienti perché la legge ammazzanotizie passi nella più totale indifferenza dell'opinione pubblica. Il rischio c'è ed è concreto.
E allora siamo noi giornalisti che dobbiamo darci una mossa. Dimostrare ai lettori che siamo in prima fila per difendere l'essenza del nostro lavoro. Come? La fantasia potrà suggerire mille forme di lotta.
Per quanto mi riguarda me ne viene in mente una: mettiamoci d'accordo in tanti (per una volta superiamo le nostre divisioni e le gelosie individuali) e, appena pubblicata la legge sulla Gazzetta ufficiale, violiamola apertamente.
Prendiamo una inchiesta e pubblichiamola come abbiamo sempre fatto. Mettiamo tutto su carta: accuse, nomi degli accusati, tesi della difesa e dei pm, raccontiamo il "contesto".
Ci dovranno arrestare, multare, se saremo in tanti sarà un colpo durissimo all'immagine di questo governo di fronte al mondo intero.
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mercoledì 20 maggio 2009
Protesta invisibile dei lavoratori Eni
La protesta invisibile dei lavoratori Eni
Difficile che i giornali che ricevono dall’Eni ricchi contratti pubblicitari si accorgano delle proteste che da lunedì 3 maggio stanno avvenendo davanti ai palazzi romani della multinazionale petrolifera italiana. Il management del cane a sei zampe ha avviato una serie di operazioni aziendali che stanno causando la perdita di centinaia di posti di lavoro, mille nella sola divisione Refining&Marketing, il principale ramo di attività rimasto in Italia. Lunedì 3 maggio hanno protestato davanti al quartier generale dell’Eni i lavoratori del Centro ricerche Eni di Monterotondo [58 persone], che dopo essere stato incensato dall’amministratore delegato Paolo Scaroni, sarà chiuso.
Lunedì 18 è stata la volta dei lavoratori informatici ex dipendenti Eni esternalizzati all’Hp. Sono in totale un centinaio di lavoratori, divisi tra Roma e Pomezia. I tagli annunciati da Hp riguardano il 25 per cento di loro, uno su quattro. Al momento della cessione di ramo d’azienda, in questo i servizi Ict, l’Eni si era impegnata a trovare soluzioni in caso di tagli al personale, che la Hp ha deciso per macinare profitti a breve termine. Il calendario delle proteste non si ferma qui: venerdì 21 maggio davanti ai palazzi dell’Eur dove si decidono le strategie aziendali dell’Eni ci saranno i lavoratori della raffineria di Livorno. L’azienda aveva promesso investimenti e la conversione a agrocarburanti, invece l’impianto sarà ceduto, senza alcuna garanzia per i lavoratori. Per evitare che queste proteste rovinino l’immagine dell’Eni costruita con sapienti ed efficace campagne di pubblicità, l’azienda ha deciso di blindare l’assemblea degli azionisti dello scorso 30 aprile, quando i sindacati che avevano deciso di distribuire volantini per spiegare le ricadute occupazionali delle scelte di Scaroni sono stati confinati ben lontani dai cancelli del palazzo dove si teneva l’assemblea. Gli utili dell’Eni, riportati da tutti i media, hanno toccato nel 2008 gli 8,8 miliardi di euro. Nello stesso periodo di tempo, però, il personale della divisione R&M è stato ridotto di un migliaio di unità, tra mancati rinnovi, prepensionamenti e licenziamenti. Secondo le Rsu della divisione, si tratta di una deliberata strategia che penalizza i lavoratori italiani.
Enzo Mangini
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Difficile che i giornali che ricevono dall’Eni ricchi contratti pubblicitari si accorgano delle proteste che da lunedì 3 maggio stanno avvenendo davanti ai palazzi romani della multinazionale petrolifera italiana. Il management del cane a sei zampe ha avviato una serie di operazioni aziendali che stanno causando la perdita di centinaia di posti di lavoro, mille nella sola divisione Refining&Marketing, il principale ramo di attività rimasto in Italia. Lunedì 3 maggio hanno protestato davanti al quartier generale dell’Eni i lavoratori del Centro ricerche Eni di Monterotondo [58 persone], che dopo essere stato incensato dall’amministratore delegato Paolo Scaroni, sarà chiuso.
Lunedì 18 è stata la volta dei lavoratori informatici ex dipendenti Eni esternalizzati all’Hp. Sono in totale un centinaio di lavoratori, divisi tra Roma e Pomezia. I tagli annunciati da Hp riguardano il 25 per cento di loro, uno su quattro. Al momento della cessione di ramo d’azienda, in questo i servizi Ict, l’Eni si era impegnata a trovare soluzioni in caso di tagli al personale, che la Hp ha deciso per macinare profitti a breve termine. Il calendario delle proteste non si ferma qui: venerdì 21 maggio davanti ai palazzi dell’Eur dove si decidono le strategie aziendali dell’Eni ci saranno i lavoratori della raffineria di Livorno. L’azienda aveva promesso investimenti e la conversione a agrocarburanti, invece l’impianto sarà ceduto, senza alcuna garanzia per i lavoratori. Per evitare che queste proteste rovinino l’immagine dell’Eni costruita con sapienti ed efficace campagne di pubblicità, l’azienda ha deciso di blindare l’assemblea degli azionisti dello scorso 30 aprile, quando i sindacati che avevano deciso di distribuire volantini per spiegare le ricadute occupazionali delle scelte di Scaroni sono stati confinati ben lontani dai cancelli del palazzo dove si teneva l’assemblea. Gli utili dell’Eni, riportati da tutti i media, hanno toccato nel 2008 gli 8,8 miliardi di euro. Nello stesso periodo di tempo, però, il personale della divisione R&M è stato ridotto di un migliaio di unità, tra mancati rinnovi, prepensionamenti e licenziamenti. Secondo le Rsu della divisione, si tratta di una deliberata strategia che penalizza i lavoratori italiani.
Enzo Mangini
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lunedì 18 maggio 2009
Salari italiani tra più bassi d'Europa
Generazione 1.000 euro: Italia 23esima classifica Ocse su salari
Salari italiani tra più bassi d'Europa, pesa cuneo fiscale
© APCOM
Milano, 18 mag. (Apcom) - Generazione mille euro. Questa volta non è un film a descrivere la realtà dei lavoratori italiani ma l'Ocse, l'organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo e economico. Nel rapporto 2008 sulla tassazione dei salari, l'Organizzazione di Parigi ha fatto i conti in tasca ai lavoratori dei 30 paesi aderenti all'organizzazione. L'Italia nella classifica si posiziona al 23simo posto dopo Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, Francia, ma anche Grecia, Spagna e perfino dell'Islanda, il Paese che nell'ottobre nero del 2008 ha dichiarato bancarotta.
Un lavoratore italiano senza figli a carico percepisce un salario medio annuo di 21.374 dollari. Tradotto in euro questo significa che a fine anno gli italiani hanno intascato, netti, poco più di 15mila euro, esattamente il 17% in meno rispetto ai 25.739 dollari di media dei 30 Paesi Ocse. E la situazione è destinata a peggiorare se il confronto lo si fa con l'Europa a 15 che vanta un salario medio annuo di 27.793 dollari, il 23% in più rispetto ai lavoratori del Bel Paese e con l'Europa a 19 (24.552, +13%).
Ad alleggerire le buste paga dei lavoratori italiani il cuneo fiscale, uno tra i più alti secondo i dati dell'Ocse, che pure nel corso dello scorso anno ha registrato una leggera diminuzione della pressione fiscale a livello complessivo. L'Italia, invece, si è mossa in controtendenza: se si osserva, infatti, il salario netto di un lavoratore italiano senza figli a carico il cuneo fiscale (differenza tra il costo del lavoro per l'impresa e la retribuzione netta che finisce in tasca al lavoratore) è stato pari al 46,5% del costo totale del lavoro, in crescita dello 0,25% rispetto all'anno prima.
Nella classifica l'Italia si posiziona al sesto posto dopo il Belgio (56%), l'Ungheria (54%), la Germania (52%), la Francia (49,3%) e l'Austria (48,8%). La mano del fisco è meno pressante per lavoratori e imprese di Gran Bretagna (32,8%), Stati Uniti (30,1%), Portogallo (37,6%), Spagna (37,8%), solo per citarne alcuni. Diminuisce, tuttavia, la pressione fiscale per le famiglie monoreddito con due figli a carico: l'Italia, infatti, passa dal sesto posto della classifica precedente all'undicesimo con un cuneo fiscale al 36%, meglio di Grecia (43,9%), Francia (42,1%), Belgio (40,8%) e Germania (36,4%) tra gli altri.
Tornando ai salari, i dati Ocse mettono in luce che se si osserva lo stipendio lordo dei lavoratori italiani dal 2007 al 2008 c'è stata una crescita del 3,9%, essando passati da 25.216 euro a 26.191 euro. In termini reali, al netto dell'inflazione al 3,4%, la crescita si è attestata allo 0,4%. Un dato migliore se ci si confronta con la crescita reale negativa per i salari lordi di Spagna (-0,2%), Stati Uniti (-0,8%), Francia (-0,4%), Germania (-0,5%) e Gran Bretagna (-1,1%).
Al netto delle tasse, tuttavia, agli italiani resta in tasca un salario che è il 44% meno di quello di un inglese, il 32% di un irlandese, il 28% meno di un tedesco, il 18% meno di un francese.
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Salari italiani tra più bassi d'Europa, pesa cuneo fiscale
© APCOM
Milano, 18 mag. (Apcom) - Generazione mille euro. Questa volta non è un film a descrivere la realtà dei lavoratori italiani ma l'Ocse, l'organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo e economico. Nel rapporto 2008 sulla tassazione dei salari, l'Organizzazione di Parigi ha fatto i conti in tasca ai lavoratori dei 30 paesi aderenti all'organizzazione. L'Italia nella classifica si posiziona al 23simo posto dopo Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti, Francia, ma anche Grecia, Spagna e perfino dell'Islanda, il Paese che nell'ottobre nero del 2008 ha dichiarato bancarotta.
Un lavoratore italiano senza figli a carico percepisce un salario medio annuo di 21.374 dollari. Tradotto in euro questo significa che a fine anno gli italiani hanno intascato, netti, poco più di 15mila euro, esattamente il 17% in meno rispetto ai 25.739 dollari di media dei 30 Paesi Ocse. E la situazione è destinata a peggiorare se il confronto lo si fa con l'Europa a 15 che vanta un salario medio annuo di 27.793 dollari, il 23% in più rispetto ai lavoratori del Bel Paese e con l'Europa a 19 (24.552, +13%).
Ad alleggerire le buste paga dei lavoratori italiani il cuneo fiscale, uno tra i più alti secondo i dati dell'Ocse, che pure nel corso dello scorso anno ha registrato una leggera diminuzione della pressione fiscale a livello complessivo. L'Italia, invece, si è mossa in controtendenza: se si osserva, infatti, il salario netto di un lavoratore italiano senza figli a carico il cuneo fiscale (differenza tra il costo del lavoro per l'impresa e la retribuzione netta che finisce in tasca al lavoratore) è stato pari al 46,5% del costo totale del lavoro, in crescita dello 0,25% rispetto all'anno prima.
Nella classifica l'Italia si posiziona al sesto posto dopo il Belgio (56%), l'Ungheria (54%), la Germania (52%), la Francia (49,3%) e l'Austria (48,8%). La mano del fisco è meno pressante per lavoratori e imprese di Gran Bretagna (32,8%), Stati Uniti (30,1%), Portogallo (37,6%), Spagna (37,8%), solo per citarne alcuni. Diminuisce, tuttavia, la pressione fiscale per le famiglie monoreddito con due figli a carico: l'Italia, infatti, passa dal sesto posto della classifica precedente all'undicesimo con un cuneo fiscale al 36%, meglio di Grecia (43,9%), Francia (42,1%), Belgio (40,8%) e Germania (36,4%) tra gli altri.
Tornando ai salari, i dati Ocse mettono in luce che se si osserva lo stipendio lordo dei lavoratori italiani dal 2007 al 2008 c'è stata una crescita del 3,9%, essando passati da 25.216 euro a 26.191 euro. In termini reali, al netto dell'inflazione al 3,4%, la crescita si è attestata allo 0,4%. Un dato migliore se ci si confronta con la crescita reale negativa per i salari lordi di Spagna (-0,2%), Stati Uniti (-0,8%), Francia (-0,4%), Germania (-0,5%) e Gran Bretagna (-1,1%).
Al netto delle tasse, tuttavia, agli italiani resta in tasca un salario che è il 44% meno di quello di un inglese, il 32% di un irlandese, il 28% meno di un tedesco, il 18% meno di un francese.
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domenica 17 maggio 2009
Torino, migliaia in piazza: «Il governo è assente»
Torino, migliaia in piazza: «Il governo è assente»
Sono 15.000 - secondo Fim, Fiom, Uilm e Fismic - i lavoratori del gruppo Fiat in corteo a Torino. È la prima volta, nella storia del gruppo Fiat, che si svolge una manifestazione nazionale il sabato mattina a Torino. Rilevante la partecipazione dei lavoratori delle aziende dell'indotto auto in crisi: delle 2.300 fabbriche in crisi mille sono in Piemonte, molte in gravi difficoltà. Molti lavoratori sfilano in tuta blu o con la maglietta che indossano in fabbrica.
«La manifestazione di oggi è un fatto importantissimo, la prima grossa manifestazione in Italia e in Europa, un segnale di mobilitazione che si estenderà in tutta Europa». Lo ha detto Giorgio Cremaschi della segreteria nazionale della Fiom, che partecipa al corteo di Torino. «La disponibilità di Marchionne non c'è - afferma Cremaschi – perché se dichiara che apre un tavolo dopo l'accordo con i tedeschi vuol dure che il tavolo non lo apre. Noi vogliamo discutere ora, non quando sarà deciso cosa chiudere e dove licenziare».
Dopo un corteo tranquillo che aveva visto sfilare accanto Cobas e sindacati confederali c'è stata qualche tensione poco prima dell'intervento del segretario Fiom Rinaldini. Un nutrito gruppo di lavoratori Fiat di Pomigliano ha contestato il il segretario dalla Fim, Beppe Farina che è stato apostrofato con frasi come 'Venduto', 'Vergogna' e 'Stai zitto'. I lavoratori hanno anche tentato di impedire a Rinaldini di parlare e lo hanno spintonato. I lavoratori rimproveravano ai sindacalisti di aver firmato l'accordo di trasferimento di 316 operai nello stabilimento di Nola. A Rinaldini è stato strappato il microfono ed è scivolato dal furgone-palco. Solo dopo l'intervento del servizio d'ordine è riuscito ad iniziare il suo intervento.
«È ridicolo che la Fiat discuta con il governo statunitense e con quello tedesco e con i sindacati di quei Paesi, ma non dica nulla in Italia». Lo ha affermato il segretario generale della Fim, Giuseppe Farina, durante il corteo di Torino. «Un ridimensionamento del settore - ha detto Farina - metterebbe a repentaglio tutti. Scendere sotto una determinata soglia di volumi produttivi significherebbe marginalizzare il comparto. Il rischio in Italia non è solo per i due stabilimenti, ma per tutto il settore, stiamo difendendo un pezzo importante di industria del nostro Paese».
«La responsabilità maggiore è del governo che finora ha dimostrato una totale assenza sia nei riguardi della Fiat sia di qualunque idea attiva di politica industriale». Lo ha affermato il segretario generale del sindacato autonomo Fismic, Roberto Di Maulo, che ha tenuto uno dei comizi conclusivi della manifestazione Fiat davanti al Lingotto. «Questo atteggiamento assente del governo - ha detto Di Maulo - sta provocando una drammatica crisi che investe soprattutto la componentistica, laddove risiede il cuore tecnologico e occupazionale del settore automotive in Italia che rappresenta il 12% del prodotto interno lordo. Lo dimostrano gli esuberi dichiarati alla Graziano che sono solo la punta dell'iceberg di una crisi drammatica. Siamo di fronte al collasso. Senza un intervento finanziario, come può essere un fondo a garanzia degli investimenti, paragonabile a quello messo in campo da tutti gli altri governi europei, ci troveremo alla fine della crisi un settore ridimensionato».
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lunedì 11 maggio 2009
Italia, paese di disoccupati o di precari?
Italia, paese di disoccupati o di precari?
di Valentina Pannunzi
Che in Italia sia difficile trovare lavoro non è una novità, figuriamoci trovarlo in base alle proprie competenze o agli studi fatti all’università e i dati riportati dall’Istat non smentiscono questa scoraggiante realtà. La disoccupazione è in salita, nel terzo trimestre dell'anno il numero delle persone in cerca di lavoro ha registrato il terzo aumento tendenziale consecutivo, portandosi a 1.527.000 unità (+127.000 unità, pari al +9% rispetto al terzo trimestre 2007). Secondo l'Istat, il tasso di disoccupazione è aumentato di mezzo punto percentuale rispetto ad un anno prima, posizionandosi al 6,1% , tale aumento è dovuto anche alla crescita degli inattivi e degli ex-occupati. In confronto al secondo trimestre 2008, al netto dei fattori stagionali, il tasso di disoccupazione è diminuito di un decimo di punto. Il numero di occupati, sempre nel terzo trimestre dell’anno, è risultato pari a 23.518.000 unità, manifestando un aumento su base annua dello 0,4 % (+101.000 unità), con una crescita in deciso rallentamento rispetto al passato. Il risultato, rileva l'Istituto, riflette ancora una volta l'incremento della popolazione straniera registrata in anagrafe. In termini destagionalizzati, in confronto al secondo trimestre 2008, l'occupazione nell'insieme del territorio nazionale ha registrato un marginale incremento, pari allo 0,1%. Il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni è diminuito di un decimo di punto rispetto al terzo trimestre 2007, portandosi al 59%.
In calo anche l’occupazione maschile, nel terzo trimestre dell’anno risulta pari allo 0,2% (-27.000 unità) rispetto allo stesso trimestre dell'anno scorso: è il primo dato con segno negativo per gli uomini dal quarto trimestre del 1997. Al contrario, sale l'occupazione femminile: nello stesso trimestre dell'anno, ha segnato un incremento dell'1,4% (pari a 127.000 unità), sempre nel confronto con il medesimo periodo del 2007. Segno positivo anche per l'occupazione straniera che è cresciuta di 285.000 unità (+152.000 uomini e +133.000 donne) soprattutto per i neo comunitari e specialmente nel nord.
Per quanto riguarda l’occupazione giovanile, la Banca Centrale europea delinea un peggioramento della situazione in Italia. Nel 2007 il tasso di disoccupazione giovanile italiano tra i 15 e i 26 anni è stato del 18,6%, molto al di sopra rispetto al 15,3% rilevato nello stesso periodo nell'Eurozona. Per l'Italia è il dato peggiore dal 1983 ad oggi. I precari italiani ammontano complessivamente a 3.3 milioni di lavoratori. La metà dei precari ha meno di 26 anni e un futuro ancora tutto da costruire. Il rapporto della Bce individua tra le cause della disoccupazione giovanile italiana il mercato del lavoro, da un lato la rigidità nei salari di chi ha un buon posto di lavoro, dall'altro l'abuso della leva della flessibilità lavorativa che spesso si trasforma in sfruttamento lavorativo di lungo periodo, senza formazione e senza possibilità d'impiego stabile per la persona.
Il tasso di disoccupazione del Sud (11,8%) è rimasto molto più elevato in confronto a quello del Nord (3,8%) e del Centro (6,4%) e si è registrato anche un allargamento dell’area della disoccupazione soprattutto per le persone che un anno fa si dichiaravano inattive. Si tratta spesso di donne che prima erano scoraggiate a trovare un impiego ma che ora, a causa del peggioramento delle condizioni economiche, sono costrette comunque a rimettersi in gioco nel mercato del lavoro. Un’assoluta novità, è che il tasso di disoccupazione degli immigrati è cresciuto per la prima volta, passando dal 7,6% del secondo trimestre 2007 all’8,8% attuale. I settori che hanno registrato una grande perdita sono stati l’agricoltura che ha registrato un calo di occupati del 3,1% che ha interessato sia il lavoro autonomo sia quello dipendente e, sotto il profilo territoriale, il nord e il sud. L'industria ha avuto un'ulteriore riduzione dell'occupazione -1,0%, concentrata nel lavoro indipendente. Il terziario, infine, fa segnare un aumento dell'occupazione su base annua pari all'1,0%.
Ma non è finita. L’Italia è anche il paese dei precari, di persone che si trovano con un lavoro a tempo determinato anche oltre i quarant’anni. Infatti pensare che il lavoro instabile riguardi solo una particolare classe d'età e un'area geografica sarebbe un errore. E’ vero che la maggior parte dell'occupazione a tempo determinato si riguarda i lavoratori dai 15 ai 29 anni, ma è anche vero che ci sono oltre mezzo milione di precari fra i 30 e i 40 anni e altrettanti dai quarant'anni in su. Non è semplice passare da un lavoro instabile ad uno stabile e questo incide anche da un punto di vista demografico della popolazione.
I precari nel nostro paese sono circa 4.000.000 e i contratti più diffusi sono quelli a tempo e quelli a progetto. Dal X rapporto AlmaLaurea presentato il 29 Febbraio 2008 presso l’Università di Catania, emerge una condizione occupazionale dei laureati stazionaria. Rispetto al 2007, quando tutti gli indicatori mostravano inequivocabilmente il segno meno, si osservano lievi segnali di ripresa. Ma solo limitatamente al primo ingresso nel mercato del lavoro. Segnali assenti o appena percettibili contraddistinguono il medio-lungo periodo. Ad un anno dalla laurea lavorano 53 laureati su cento. Aumenta, in modo lieve, il tasso di occupazione (+0,6 punti percentuali), diminuisce quello di disoccupazione (-0,5). Aumenta, anche se di poco, il lavoro stabile (+0,6). A cinque anni dalla laurea lavorano 85 laureati su cento (- 0,3 punti). A cinque anni dalla laurea il lavoro stabile si amplia fino a coinvolgere 70 laureati su cento. Ma resta consistente il lavoro precario: sia a un anno (48%) che a cinque anni dalla laurea (27%). Le differenze di genere, pur riducendosi a uno e cinque anni (1-2 punti), rimangono elevate: 7 punti a uno e a cinque anni dalla laurea. Rimane preoccupante il divario tra Nord e Sud: 23 punti percentuali a un anno dalla laurea, 12 punti a cinque anni. Le retribuzioni, già modeste (1.040 euro mensili netti per un neolaureato, 1.342 dopo cinque anni), continuano a perdere potere d’acquisto. Fatto 100 il guadagno del laureato del 2001, il laureato intervistato nel 2007 guadagna 92,9: ancora meno dell’anno precedente (94,7).
Quanto alla durata, quella media del contratto flessibile, in Italia, è di 12,8 mesi ma il 37% dei lavoratori temporanei firma accordi che garantiscono solo sei mesi di lavoro e solo il 19,6% dei precari può contare su una occupazione garantita per due anni. Un futuro troppo corto per fare progetti e questo bisognerebbe dirlo al ministro Brunetta che parlando dei precari afferma “Non saranno a spasso, si cercheranno qualcos’ altro da fare. Altri progetti, altre esperienze, magari in giro per il mondo”. In questo modo, si avrà ancora una volta la “fuga dei cervelli” all’estero e l’Italia andrà sempre peggio. Ma se invece di alzare provasse ad abbassare l’età pensionistica? Questo è un buon consiglio per il Ministro.
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di Valentina Pannunzi
Che in Italia sia difficile trovare lavoro non è una novità, figuriamoci trovarlo in base alle proprie competenze o agli studi fatti all’università e i dati riportati dall’Istat non smentiscono questa scoraggiante realtà. La disoccupazione è in salita, nel terzo trimestre dell'anno il numero delle persone in cerca di lavoro ha registrato il terzo aumento tendenziale consecutivo, portandosi a 1.527.000 unità (+127.000 unità, pari al +9% rispetto al terzo trimestre 2007). Secondo l'Istat, il tasso di disoccupazione è aumentato di mezzo punto percentuale rispetto ad un anno prima, posizionandosi al 6,1% , tale aumento è dovuto anche alla crescita degli inattivi e degli ex-occupati. In confronto al secondo trimestre 2008, al netto dei fattori stagionali, il tasso di disoccupazione è diminuito di un decimo di punto. Il numero di occupati, sempre nel terzo trimestre dell’anno, è risultato pari a 23.518.000 unità, manifestando un aumento su base annua dello 0,4 % (+101.000 unità), con una crescita in deciso rallentamento rispetto al passato. Il risultato, rileva l'Istituto, riflette ancora una volta l'incremento della popolazione straniera registrata in anagrafe. In termini destagionalizzati, in confronto al secondo trimestre 2008, l'occupazione nell'insieme del territorio nazionale ha registrato un marginale incremento, pari allo 0,1%. Il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni è diminuito di un decimo di punto rispetto al terzo trimestre 2007, portandosi al 59%.
In calo anche l’occupazione maschile, nel terzo trimestre dell’anno risulta pari allo 0,2% (-27.000 unità) rispetto allo stesso trimestre dell'anno scorso: è il primo dato con segno negativo per gli uomini dal quarto trimestre del 1997. Al contrario, sale l'occupazione femminile: nello stesso trimestre dell'anno, ha segnato un incremento dell'1,4% (pari a 127.000 unità), sempre nel confronto con il medesimo periodo del 2007. Segno positivo anche per l'occupazione straniera che è cresciuta di 285.000 unità (+152.000 uomini e +133.000 donne) soprattutto per i neo comunitari e specialmente nel nord.
Per quanto riguarda l’occupazione giovanile, la Banca Centrale europea delinea un peggioramento della situazione in Italia. Nel 2007 il tasso di disoccupazione giovanile italiano tra i 15 e i 26 anni è stato del 18,6%, molto al di sopra rispetto al 15,3% rilevato nello stesso periodo nell'Eurozona. Per l'Italia è il dato peggiore dal 1983 ad oggi. I precari italiani ammontano complessivamente a 3.3 milioni di lavoratori. La metà dei precari ha meno di 26 anni e un futuro ancora tutto da costruire. Il rapporto della Bce individua tra le cause della disoccupazione giovanile italiana il mercato del lavoro, da un lato la rigidità nei salari di chi ha un buon posto di lavoro, dall'altro l'abuso della leva della flessibilità lavorativa che spesso si trasforma in sfruttamento lavorativo di lungo periodo, senza formazione e senza possibilità d'impiego stabile per la persona.
Il tasso di disoccupazione del Sud (11,8%) è rimasto molto più elevato in confronto a quello del Nord (3,8%) e del Centro (6,4%) e si è registrato anche un allargamento dell’area della disoccupazione soprattutto per le persone che un anno fa si dichiaravano inattive. Si tratta spesso di donne che prima erano scoraggiate a trovare un impiego ma che ora, a causa del peggioramento delle condizioni economiche, sono costrette comunque a rimettersi in gioco nel mercato del lavoro. Un’assoluta novità, è che il tasso di disoccupazione degli immigrati è cresciuto per la prima volta, passando dal 7,6% del secondo trimestre 2007 all’8,8% attuale. I settori che hanno registrato una grande perdita sono stati l’agricoltura che ha registrato un calo di occupati del 3,1% che ha interessato sia il lavoro autonomo sia quello dipendente e, sotto il profilo territoriale, il nord e il sud. L'industria ha avuto un'ulteriore riduzione dell'occupazione -1,0%, concentrata nel lavoro indipendente. Il terziario, infine, fa segnare un aumento dell'occupazione su base annua pari all'1,0%.
Ma non è finita. L’Italia è anche il paese dei precari, di persone che si trovano con un lavoro a tempo determinato anche oltre i quarant’anni. Infatti pensare che il lavoro instabile riguardi solo una particolare classe d'età e un'area geografica sarebbe un errore. E’ vero che la maggior parte dell'occupazione a tempo determinato si riguarda i lavoratori dai 15 ai 29 anni, ma è anche vero che ci sono oltre mezzo milione di precari fra i 30 e i 40 anni e altrettanti dai quarant'anni in su. Non è semplice passare da un lavoro instabile ad uno stabile e questo incide anche da un punto di vista demografico della popolazione.
I precari nel nostro paese sono circa 4.000.000 e i contratti più diffusi sono quelli a tempo e quelli a progetto. Dal X rapporto AlmaLaurea presentato il 29 Febbraio 2008 presso l’Università di Catania, emerge una condizione occupazionale dei laureati stazionaria. Rispetto al 2007, quando tutti gli indicatori mostravano inequivocabilmente il segno meno, si osservano lievi segnali di ripresa. Ma solo limitatamente al primo ingresso nel mercato del lavoro. Segnali assenti o appena percettibili contraddistinguono il medio-lungo periodo. Ad un anno dalla laurea lavorano 53 laureati su cento. Aumenta, in modo lieve, il tasso di occupazione (+0,6 punti percentuali), diminuisce quello di disoccupazione (-0,5). Aumenta, anche se di poco, il lavoro stabile (+0,6). A cinque anni dalla laurea lavorano 85 laureati su cento (- 0,3 punti). A cinque anni dalla laurea il lavoro stabile si amplia fino a coinvolgere 70 laureati su cento. Ma resta consistente il lavoro precario: sia a un anno (48%) che a cinque anni dalla laurea (27%). Le differenze di genere, pur riducendosi a uno e cinque anni (1-2 punti), rimangono elevate: 7 punti a uno e a cinque anni dalla laurea. Rimane preoccupante il divario tra Nord e Sud: 23 punti percentuali a un anno dalla laurea, 12 punti a cinque anni. Le retribuzioni, già modeste (1.040 euro mensili netti per un neolaureato, 1.342 dopo cinque anni), continuano a perdere potere d’acquisto. Fatto 100 il guadagno del laureato del 2001, il laureato intervistato nel 2007 guadagna 92,9: ancora meno dell’anno precedente (94,7).
Quanto alla durata, quella media del contratto flessibile, in Italia, è di 12,8 mesi ma il 37% dei lavoratori temporanei firma accordi che garantiscono solo sei mesi di lavoro e solo il 19,6% dei precari può contare su una occupazione garantita per due anni. Un futuro troppo corto per fare progetti e questo bisognerebbe dirlo al ministro Brunetta che parlando dei precari afferma “Non saranno a spasso, si cercheranno qualcos’ altro da fare. Altri progetti, altre esperienze, magari in giro per il mondo”. In questo modo, si avrà ancora una volta la “fuga dei cervelli” all’estero e l’Italia andrà sempre peggio. Ma se invece di alzare provasse ad abbassare l’età pensionistica? Questo è un buon consiglio per il Ministro.
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venerdì 8 maggio 2009
Fiat/ Brancato (Fiom Napoli):Subito tavolo, siamo già in ritardo
Fiat/ Brancato (Fiom Napoli):Subito tavolo, siamo già in ritardo
di Apcom
Se Governo non lo capisce, si assume grave responsabilità
- Il tavolo sulla Fiat richiesto dai sindacati va aperto subito e non dopo la conclusione delle trattative in corso negli Stati Uniti e in Europa come dichiarato dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Lo ha affermato il segretario generale della Fiom di Napoli, Massimo Brancato. "Così si rischia la chiusura della stalla quando i buoi sono già scappati - dice in una nota - Il tavolo va aperto subito, anzi già siamo in ritardo: non ci si può chiedere di 'prendere o lasciare'. Noi vogliamo discutere e negoziare per raggiungere un accordo capace di rilanciare la dimensione industriale della Fiat in Italia e riassicurare il mantenimento di tutti gli stabilimenti e dei relativi occupazionali, a partire da Pomigliano d'Arco. Se - conclude - il Governo non lo capisce si assume una grave responsabilità".
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di Apcom
Se Governo non lo capisce, si assume grave responsabilità
- Il tavolo sulla Fiat richiesto dai sindacati va aperto subito e non dopo la conclusione delle trattative in corso negli Stati Uniti e in Europa come dichiarato dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Lo ha affermato il segretario generale della Fiom di Napoli, Massimo Brancato. "Così si rischia la chiusura della stalla quando i buoi sono già scappati - dice in una nota - Il tavolo va aperto subito, anzi già siamo in ritardo: non ci si può chiedere di 'prendere o lasciare'. Noi vogliamo discutere e negoziare per raggiungere un accordo capace di rilanciare la dimensione industriale della Fiat in Italia e riassicurare il mantenimento di tutti gli stabilimenti e dei relativi occupazionali, a partire da Pomigliano d'Arco. Se - conclude - il Governo non lo capisce si assume una grave responsabilità".
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Fiat/ Die Zeit: Marchionne non credibile, perchè italiano?
Fiat/ Die Zeit: Marchionne non credibile, perchè italiano?
di Apcom
Ma il suo piano su Opel non è temerario e neanche disonesto
- E' forse il pregiudizio davanti a un'azienda automobilistica che per lungo tempo non è stata sinonimo di qualità.
O forse, più probabilmente, una sorta di risentimento (da parte dei tedeschi) nei confronti di un paese (l'Italia) che ha eletto tre volte l'imprenditore Silvio Berlusconi presidente del Consiglio. Lui che adesso chiama la possibilità di una mega alleanza tra Fiat e Opel, dopo le nozze con Chrysler, "il sogno di tutti gli italiani". Sarà per questo che l'ad della casa automobilistica di Torino, sebbene si presenti con buoni argomenti, si trova davanti un muro di "sospetti e rifiuti", scrive il settimanale "Die Zeit", che alla questione dedica la prima pagina e il titolo: "Perchè sono italiani?". Il Financial Times Deutschland ha chiamato il manager italo-canadese "truffatore di matrimoni". Lo si accusa di puntare solo alla tecnica e ai soldi dei tedeschi. "Ci vuole fantasia - scrive la testata di Amburgo - per immaginare che dalle fabbriche Opel che mangiano soldi, dal colosso fortemente indebitato della Fiat e dal costruttore americano insolvente Chrysler possa nascere un gigante dell'auto. Sergio Marchionne ha questa fantasia", scrive Die Zeit. Tra gli "Opelanern", quelli della Opel, non ci sono solo pregiudizi, precisa l'autore dell'articolo Ruediger Jungbluth, ci sono anche esperienze che fanno prevalere i no. Le due aziende hanno collaborato tra il 2000 e il 2005 e questo periodo è rimasto un brutto ricordo per Opel. Oggi temono di passare dalle mani di una matrigna americana (General Motors, ndr) a una italiana. Ma Opel - sottolinea il giornale - "non può staccarsi completamente da Gm, nè può farcela senza nuovi partner o investitori". Opel deve continuare a tagliare personale e, prima o poi, chiudere anche stabilimenti. "C'è solo una strada possibile e questa è quella degli aiuti di Stato", scrive Die Zeit. L'ad di Fiat conosce bene il problema dell'eccesso di produzione. Ed ha ragione anche quando dice che Fiat e Opel insieme avrebbero maggiori chance nella concorrenza internazionale, se in futuro costruissero i loro modelli su una piattaforma comune. "Per quanto suoni temerario, il piano di Marchionne non lo è. Non è neanche disonesto, quando fa i conti con i soldi dei contribuenti", aggiunge. La Zeit ricorda che finora non è stato trovato un investitore straniero che volesse comprare Opel senza gli aiuti dello Stato tedesco. "La casa automobilistica è tutt'altro che una 'sposa desiderata'". Questo fatto dovrebbe rendere tutti, i rappresentanti della classe lavoratrice del settore compresi, "un po' più umili".
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di Apcom
Ma il suo piano su Opel non è temerario e neanche disonesto
- E' forse il pregiudizio davanti a un'azienda automobilistica che per lungo tempo non è stata sinonimo di qualità.
O forse, più probabilmente, una sorta di risentimento (da parte dei tedeschi) nei confronti di un paese (l'Italia) che ha eletto tre volte l'imprenditore Silvio Berlusconi presidente del Consiglio. Lui che adesso chiama la possibilità di una mega alleanza tra Fiat e Opel, dopo le nozze con Chrysler, "il sogno di tutti gli italiani". Sarà per questo che l'ad della casa automobilistica di Torino, sebbene si presenti con buoni argomenti, si trova davanti un muro di "sospetti e rifiuti", scrive il settimanale "Die Zeit", che alla questione dedica la prima pagina e il titolo: "Perchè sono italiani?". Il Financial Times Deutschland ha chiamato il manager italo-canadese "truffatore di matrimoni". Lo si accusa di puntare solo alla tecnica e ai soldi dei tedeschi. "Ci vuole fantasia - scrive la testata di Amburgo - per immaginare che dalle fabbriche Opel che mangiano soldi, dal colosso fortemente indebitato della Fiat e dal costruttore americano insolvente Chrysler possa nascere un gigante dell'auto. Sergio Marchionne ha questa fantasia", scrive Die Zeit. Tra gli "Opelanern", quelli della Opel, non ci sono solo pregiudizi, precisa l'autore dell'articolo Ruediger Jungbluth, ci sono anche esperienze che fanno prevalere i no. Le due aziende hanno collaborato tra il 2000 e il 2005 e questo periodo è rimasto un brutto ricordo per Opel. Oggi temono di passare dalle mani di una matrigna americana (General Motors, ndr) a una italiana. Ma Opel - sottolinea il giornale - "non può staccarsi completamente da Gm, nè può farcela senza nuovi partner o investitori". Opel deve continuare a tagliare personale e, prima o poi, chiudere anche stabilimenti. "C'è solo una strada possibile e questa è quella degli aiuti di Stato", scrive Die Zeit. L'ad di Fiat conosce bene il problema dell'eccesso di produzione. Ed ha ragione anche quando dice che Fiat e Opel insieme avrebbero maggiori chance nella concorrenza internazionale, se in futuro costruissero i loro modelli su una piattaforma comune. "Per quanto suoni temerario, il piano di Marchionne non lo è. Non è neanche disonesto, quando fa i conti con i soldi dei contribuenti", aggiunge. La Zeit ricorda che finora non è stato trovato un investitore straniero che volesse comprare Opel senza gli aiuti dello Stato tedesco. "La casa automobilistica è tutt'altro che una 'sposa desiderata'". Questo fatto dovrebbe rendere tutti, i rappresentanti della classe lavoratrice del settore compresi, "un po' più umili".
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