Profilo:
• Bruno Editore assume ragazza 20/35 anni, motivata e dinamica, bella presenza, per il ruolo di Assistenza Clienti.
Competenze richieste:
• Ottima capacità di gestione telefonate in entrata e uscita
• Ottima capacità di uso PC, email e internet
• Ottima capacità di ascolto e problem solving
Gradita ma non indispensabile:
• esperienza in call center
• esperienze di segreteria
• conoscenza dei programmi di affiliazione
• passione per libri ed ebook
• esperienze di fatturazione
Sede Lavoro:
• Sede Bruno Editore: Via Lampertico 9A, Roma
Orario:
• Part-time: Lun/Ven 09.00-14.00
Requisiti:
• residenza a Roma
Se è il ruolo che fa per te, invia il tuo curriculum a:
mailto:sara@autostima.net?subject=CV_ASS_CLIENTI
e nella email fai una tua presentazione, indicando:
- perchè dovremmo scegliere te
- la tue esperienze correlate al ruolo richiesto
In mancanza di questi dati non potremo valutare il curriculum.
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sabato 29 agosto 2009
venerdì 28 agosto 2009
Una nuova protesta estrema
Il caso Melfi arriva al ministero
Non c'è ancora una data certa , ma la prossima settimana le parti sociali saranno chiamate al ministero dello Sviluppo economico per un confronto sul caso della Lasme 2 di Melfi. Lo rende noto il dicastero di Claudio Scajola. Il licenziamento dei 174 operai della fabbrica di componentistica che produce finestrini e moduli per le portiere per tutte le aziende della Fiat auto, buca il livello nazionale. Succede dopo che sette di loro si sono installati sul tetto della fabbrica. E' successo la sera del 25 agosto, e quando gli operai hanno varcato i cancelli - dopo 25 giorni di presidio - un vigilantes ha anche sparato tre colpi di pistola in aria. Una nuova protesta estrema, a fronte di un nuovo comportamento altrettanto estremo da parte delle aziende. Che di fronte alla crisi sembrano aver perso prima di tutto la decenza. Il caso della Lasme di Melfi è emblematico. I fratelli Pellegri, imprenditori liguri, si sono sostanzialmente dati alla fuga. Gli operai sono andati in ferie a fine luglio senza sospettare nulla. Sono tornati ad agosto e hanno avuto il benservito. I Pellegri vorrebbero trasferire la produzione a Chiavari, nella sede della azienda madre che si chiama Lames. Ma il progetto pare covasse già da parecchio tempo. Forse addirittura da anni: avrebbe preso forma nel 2007, quando la Lames ha firmato un accordo con le istituzioni locali per allargare lo stabilimento di Chiavari e trasferirlo fuori dal centro abitato. Lo scorso maggio, inoltre, la Lasme ha imporovvisamente cambiato ragione sociale: da Spa si è trasformata in Srl. Guarda caso le società a responsabilità limitata in liquidazione rispondono solo per il loro capitale sociale (in questo caso 40 mila euro), mentre le società per azioni rispondono per l'intero capitale. Dietro la decisione degli operai di salire sul tetto e di non scendere "finché non sarà revocata la procedura di mobilità", c'è anche e soprattutto la sensazione di essere stati raggirati, di essere stati trattati senza rispetto: "Quando producevamo e davano alla Sata le medaglie di argento ci dicevano che eravamo come una famiglia. Poi scappano come i conigli", dice un'operaia anche lei - come tutti gli altri insieme alle loro famiglie - in assemblea permanente per sostenere la protesta dei sette sul tetto. Domattina è previsto un incontro in prefettura, a cui parteciperà anche un delegato della Lames. Un ultimo tavolo territoriale prima di darsi appuntamento al ministero.
Cinzia Gubbini
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lunedì 24 agosto 2009
Cassa integrazione: CGIL analisi dei primi sei mesi dell'anno
Cassa integrazione: CGIL analisi dei primi sei mesi dell'anno
Necessario allungare il periodo di CIG ordinaria dalle 52 alle 104 settimane.
L'Osservatorio CIG del Dipartimento settori produttivi della CGIL, ha elaborato un'analisi sulle ore di cassa integrazione che hanno coinvolto i lavoratori nella prima parte dell'anno. I risultati emersi, dall'analisi su dati INPS, descrivono una situazione di oltre 770 mila lavoratori, 776.890 per la precisione, rimasti coinvolti in procedure di cassa integrazione guadagni nei primi sei mesi dell'anno. Tale cifra viene calcolata considerando, tra gennaio e giugno, un'assenza media dal lavoro di 12 settimane per ognuno.
Tra i settori più colpiti, a soffrire di più è certamente la meccanica con 343 mila lavoratori coinvolti, quasi la metà del valore medio totale; a seguire gli edili (79.066), chimici (58.657) e tessili (56.973). Le attività metallurgiche con 55.200 lavoratori coinvolti presenta insieme alla meccanica anche gli incrementi percentuali più alti di ricorso alla CIG, pari rispettivamente a 768% e 500% nei sei mesi.
A livello regionale il balzo più ampio è dell'Abruzzo, che sconta anche un effetto terremoto, con +551,58%, a fronte di una media nazionale pari a +282,29%. Seguono il Piemonte con +463,23%, l'Emilia Romagna con +438,27% e la Lombardia con +424,55%. La regione meno colpita è la Calabria con +29,4%. Su un totale di 1.357 decreti di cassa straordinaria (+62,91%), 808 hanno avuto per causale una situazione di crisi aziendale (+84,47%) e 253 contratti di solidarietà (+148,04%).
Sulla base di ciò, sottolinea il sindacato di Corso d'Italia, “la richiesta che abbiamo avanzato già da tempo di allungare il periodo di CIG ordinaria dalle 52 alle 104 settimane resta più che mai valida, una scelta necessaria, visto che in molti casi si sta arrivando al limite attuale, per consentire una copertura più lunga ai lavoratori ed una opportunità di ripresa per l'impresa”.
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Necessario allungare il periodo di CIG ordinaria dalle 52 alle 104 settimane.
L'Osservatorio CIG del Dipartimento settori produttivi della CGIL, ha elaborato un'analisi sulle ore di cassa integrazione che hanno coinvolto i lavoratori nella prima parte dell'anno. I risultati emersi, dall'analisi su dati INPS, descrivono una situazione di oltre 770 mila lavoratori, 776.890 per la precisione, rimasti coinvolti in procedure di cassa integrazione guadagni nei primi sei mesi dell'anno. Tale cifra viene calcolata considerando, tra gennaio e giugno, un'assenza media dal lavoro di 12 settimane per ognuno.
Tra i settori più colpiti, a soffrire di più è certamente la meccanica con 343 mila lavoratori coinvolti, quasi la metà del valore medio totale; a seguire gli edili (79.066), chimici (58.657) e tessili (56.973). Le attività metallurgiche con 55.200 lavoratori coinvolti presenta insieme alla meccanica anche gli incrementi percentuali più alti di ricorso alla CIG, pari rispettivamente a 768% e 500% nei sei mesi.
A livello regionale il balzo più ampio è dell'Abruzzo, che sconta anche un effetto terremoto, con +551,58%, a fronte di una media nazionale pari a +282,29%. Seguono il Piemonte con +463,23%, l'Emilia Romagna con +438,27% e la Lombardia con +424,55%. La regione meno colpita è la Calabria con +29,4%. Su un totale di 1.357 decreti di cassa straordinaria (+62,91%), 808 hanno avuto per causale una situazione di crisi aziendale (+84,47%) e 253 contratti di solidarietà (+148,04%).
Sulla base di ciò, sottolinea il sindacato di Corso d'Italia, “la richiesta che abbiamo avanzato già da tempo di allungare il periodo di CIG ordinaria dalle 52 alle 104 settimane resta più che mai valida, una scelta necessaria, visto che in molti casi si sta arrivando al limite attuale, per consentire una copertura più lunga ai lavoratori ed una opportunità di ripresa per l'impresa”.
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sabato 22 agosto 2009
il governo dimezza la maggior parte delle sanzioni ai datori di lavoro
Sicurezza: il governo dimezza la maggior parte delle sanzioni ai datori di lavoro, dirigenti e preposti. E non potenzia neanche i controlli
di Marco Bazzoni*
Evidentemente tutti gli infortuni, gli invalidi, le malattie professionali e le morti sul lavoro non sono abbastanza se il Governo Berlusconi ha pensato bene di smantellare il Dlgs 81/08 (testo unico per la sicurezza sul lavoro) con il Dlgs 106/09 (decreto correttivo), piuttosto che renderlo funzionale.E pensare che il Ministro del Lavoro Sacconi dopo la strage sul lavoro al depuratore di Mineo (CT) dell'11 giugno 2008, che costò la vita a sei operai comunali, annunciò un piano straordinario per la sicurezza sul lavoro.Se per piano straordinario intendeva questo decreto, beh, allora stiamo freschi.Per anni è stato chiesto pene più severe per i datori di lavoro che sono responsabili di gravi infortuni e morti sul lavoro e per quelli che non rispettano la sicurezza sul lavoro.Ed il governo che fa, dimezza la maggior parte delle sanzioni ai datori di lavoro, dirigenti e preposti.Non contento, non potenzia neanche i controlli.Dio non voglia che qualche imprenditore becchi qualche multa : con lo scarso personale ispettivo delle Asl è praticamente impossibile ricevere un controllo, in quanto, se va bene un'azienda riceverà uno ogni 33 anni.Ma non è finita qui, onde evitare che qualche imprenditore finisse in galera si è previsto che al posto dell'arresto, possano pagare la multa, e faranno tutti così, statene certi.Inoltre, la salva manager non è stata cancellata, ma semplicemente riscritta, non è spudorata come la precedente, ma da sempre spazio a manovre e cavilli a favore dei manager.Non capisco ancora come Napolitano abbia potuto firmare questo decreto, sapendo che questa norma non era stata cancellata.L'intento di questa norma è evidente, scaricare le responsabilità dei manager su preposti, lavoratori,progettisti, fabbricanti, installatori e medici competenti.Non essendoci certezza della pena, anche se nella remota ipotesi un datore di lavoro venga condannato per la morte di un lavoratore, il carcere "lo vedrà con il binocolo".Quando penso al povero Andrea Gagliardoni, morto il 20 giugno del 2006 a soli 23 anni con la testa schiacciata in una pressa tampografica nella ditta Asoplast di Ortezzano (AP), al povero Matteo Valenti, morto bruciato, dopo 4 giorni di agonia per un gravissimo infortunio sul lavoro (8 novembre 2004) nella ditta Mobiloil di Viareggio, ai quattro operai morti carbonizzati nell'esplosione alla Umbria Olii di Campello sul Clitunno (25 novembre 2006), allo loro famiglie che non avuto neanche giustizia ( 8 mesi con la condizionale per la morte di Andrea Gagliardoni, 1 anno e 4 mesi con la condizionale per la morte di Matteo Valenti , mentre quello per la morte dei 4 operai alla Umbria Olii manco è iniziato, e non sappiamo neanche se inizierà mai), mi domando : ma in che paese viviamo?Ci definiamo una "Repubblica fondata sul lavoro", ma forse sarebbe più corretto dire, una "Repubblica fondata sulle morti sul lavoro".Come si fa a definire civile, un paese dove ogni anno ci sono 1200 morti sul lavoro?Qualcuno adesso dirà che nell'anno 2008 ci sono stati 1120 morti sul lavoro (secondo l'Inail) e che c'è stato anche un calo degli infortuni sul lavoro.Ma andrebbe ricordato a quel qualcuno, che nel 2008 c'è stata la più grossa crisi finanziaria ed economica dal secondo dopoguerra ad oggi, e che quel calo dipende più da questo (cassaintegrazione, mobilità, chiusure di aziende), che a una maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro.Che poi, se vogliamo proprio dirla tutta, i dati dell'Inail non sono oro colato, ma solo un punto di riferimento.Questi dati non tengono conto degli infortuni denunciati come malattia, che si stima siano intorno a 200 mila ogni ann, se non oltre, di tutti i lavoratori che muoiono in "nero" che vengono abbondonati fuori dai cantieri o dalle fabbriche.Poi ci sono gli Rls che denunciano la scarsa sicurezza in azienda,che vengono minacciati, multati o peggio ancora licenziati, come è successo al povero Dante De Angelis, la cui unica colpa è quella di aver denunciato prima alla sua azienda, e poi ai mezzi d'informazione la scarsa manutenzione e sicurezza sui treni eurostar.E' passato un anno dal suo licenziamento, ma ad oggi non è stato ancora reintegrato, nonostante le migliaia di firme raccolte a suo favore, nonostante che quello che aveva denunciato si sia rivelato tristemente vero, nonostante il 29 giugno 2009, ci sia stato a Viareggio un disastro ferroviario, che ha fatto a tutt'oggi 29 morti.E intanto abbiamo un ex sindacalista a capo di FS, che va dicendo a destra e a manca, che le ferrovie italiane sono le più sicure d'Europa...Vale la pena ricordare, che dal 14 giugno 2009 è stato introdotto il "macchinista unico", e purtroppo, gli incidenti ferroviari, sono destinati tristemente ad aumentare.Ha davvero ancora senso andare avanti con questa "battaglia" per più sicurezza, o tanto varrebbe mollare qui? Perchè è quello che sto pensando di fare. Spero la pubblicherete.
* Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
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di Marco Bazzoni*
Evidentemente tutti gli infortuni, gli invalidi, le malattie professionali e le morti sul lavoro non sono abbastanza se il Governo Berlusconi ha pensato bene di smantellare il Dlgs 81/08 (testo unico per la sicurezza sul lavoro) con il Dlgs 106/09 (decreto correttivo), piuttosto che renderlo funzionale.E pensare che il Ministro del Lavoro Sacconi dopo la strage sul lavoro al depuratore di Mineo (CT) dell'11 giugno 2008, che costò la vita a sei operai comunali, annunciò un piano straordinario per la sicurezza sul lavoro.Se per piano straordinario intendeva questo decreto, beh, allora stiamo freschi.Per anni è stato chiesto pene più severe per i datori di lavoro che sono responsabili di gravi infortuni e morti sul lavoro e per quelli che non rispettano la sicurezza sul lavoro.Ed il governo che fa, dimezza la maggior parte delle sanzioni ai datori di lavoro, dirigenti e preposti.Non contento, non potenzia neanche i controlli.Dio non voglia che qualche imprenditore becchi qualche multa : con lo scarso personale ispettivo delle Asl è praticamente impossibile ricevere un controllo, in quanto, se va bene un'azienda riceverà uno ogni 33 anni.Ma non è finita qui, onde evitare che qualche imprenditore finisse in galera si è previsto che al posto dell'arresto, possano pagare la multa, e faranno tutti così, statene certi.Inoltre, la salva manager non è stata cancellata, ma semplicemente riscritta, non è spudorata come la precedente, ma da sempre spazio a manovre e cavilli a favore dei manager.Non capisco ancora come Napolitano abbia potuto firmare questo decreto, sapendo che questa norma non era stata cancellata.L'intento di questa norma è evidente, scaricare le responsabilità dei manager su preposti, lavoratori,progettisti, fabbricanti, installatori e medici competenti.Non essendoci certezza della pena, anche se nella remota ipotesi un datore di lavoro venga condannato per la morte di un lavoratore, il carcere "lo vedrà con il binocolo".Quando penso al povero Andrea Gagliardoni, morto il 20 giugno del 2006 a soli 23 anni con la testa schiacciata in una pressa tampografica nella ditta Asoplast di Ortezzano (AP), al povero Matteo Valenti, morto bruciato, dopo 4 giorni di agonia per un gravissimo infortunio sul lavoro (8 novembre 2004) nella ditta Mobiloil di Viareggio, ai quattro operai morti carbonizzati nell'esplosione alla Umbria Olii di Campello sul Clitunno (25 novembre 2006), allo loro famiglie che non avuto neanche giustizia ( 8 mesi con la condizionale per la morte di Andrea Gagliardoni, 1 anno e 4 mesi con la condizionale per la morte di Matteo Valenti , mentre quello per la morte dei 4 operai alla Umbria Olii manco è iniziato, e non sappiamo neanche se inizierà mai), mi domando : ma in che paese viviamo?Ci definiamo una "Repubblica fondata sul lavoro", ma forse sarebbe più corretto dire, una "Repubblica fondata sulle morti sul lavoro".Come si fa a definire civile, un paese dove ogni anno ci sono 1200 morti sul lavoro?Qualcuno adesso dirà che nell'anno 2008 ci sono stati 1120 morti sul lavoro (secondo l'Inail) e che c'è stato anche un calo degli infortuni sul lavoro.Ma andrebbe ricordato a quel qualcuno, che nel 2008 c'è stata la più grossa crisi finanziaria ed economica dal secondo dopoguerra ad oggi, e che quel calo dipende più da questo (cassaintegrazione, mobilità, chiusure di aziende), che a una maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro.Che poi, se vogliamo proprio dirla tutta, i dati dell'Inail non sono oro colato, ma solo un punto di riferimento.Questi dati non tengono conto degli infortuni denunciati come malattia, che si stima siano intorno a 200 mila ogni ann, se non oltre, di tutti i lavoratori che muoiono in "nero" che vengono abbondonati fuori dai cantieri o dalle fabbriche.Poi ci sono gli Rls che denunciano la scarsa sicurezza in azienda,che vengono minacciati, multati o peggio ancora licenziati, come è successo al povero Dante De Angelis, la cui unica colpa è quella di aver denunciato prima alla sua azienda, e poi ai mezzi d'informazione la scarsa manutenzione e sicurezza sui treni eurostar.E' passato un anno dal suo licenziamento, ma ad oggi non è stato ancora reintegrato, nonostante le migliaia di firme raccolte a suo favore, nonostante che quello che aveva denunciato si sia rivelato tristemente vero, nonostante il 29 giugno 2009, ci sia stato a Viareggio un disastro ferroviario, che ha fatto a tutt'oggi 29 morti.E intanto abbiamo un ex sindacalista a capo di FS, che va dicendo a destra e a manca, che le ferrovie italiane sono le più sicure d'Europa...Vale la pena ricordare, che dal 14 giugno 2009 è stato introdotto il "macchinista unico", e purtroppo, gli incidenti ferroviari, sono destinati tristemente ad aumentare.Ha davvero ancora senso andare avanti con questa "battaglia" per più sicurezza, o tanto varrebbe mollare qui? Perchè è quello che sto pensando di fare. Spero la pubblicherete.
* Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
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lunedì 17 agosto 2009
notte sul Colosseo
4 notte sul Colosseo
Quella prossima sarà la 4 notte di protesta, lassù a cinquanta metri di altezza, sul terzo anello di uno dei monumenti più noti e visitati del mondo. I «sette gladiatori», come li hanno ribattezzati i loro colleghi e i familiari che bivaccano a loro volta nei giardini di via del Fori Imperiali a Roma, hanno proseguito anche oggi il loro sit-in sul Colosseo.
Da tre giorni, e da domani anche da tre notti, i lavoratori dell'Istituto di vigilanza dell'Urbe sono sotto i riflettori delle telecamere e immortalati negli obiettivi dei fotoreporter per una protesta, modello "Innse", che domani potrebbe riservare un primo momento di possibile sblocco: il Campidoglio è intervenuto infatti per cercare di trovare una soluzione che fermi la clamorosa iniziativa attuata contro il cambio di gestione dell'ente dal quale dipendevano.
L'assessore capitolino alle Attività produttive Davide Bordoni ha convocato domani alle 11 in Campidoglio sindacalisti e rappresentanti dei 300 lavoratori che hanno rifiutato il contratto con la nuova società che ha rilevato l'Istituto. L'invito è stato accolto perchè, ha spiegato Marco Lucarelli delle RdB, «non rinunciamo al dialogo ma non fermiamo la protesta: la Prefettura è disposta ad aprire un tavolo ma solo se loro scendono dal Colosseo, e a queste condizioni non se ne fa nulla».
La vicenda dell'Istituto di Vigilanza Urbe è anche oggetto di una inchiesta giudiziaria. Nel mirino del pm Paolo D'Ovidio è l'Associazione nazionale combattenti di cui l'Istituto di Vigilanza Urbe, a cui appartengono le guardie giurate che hanno attuato da ieri la protesta al Colosseo, è una «costola». Il pm Paolo D'Ovidio ha aperto un fascicolo per appropriazione indebita per far luce sulla vendita del patrimonio immobiliare dell'Ente che percepisce, tra l'altro, finanziamenti anche dal Ministero della Difesa e dalla presidenza del Consiglio. E ha iscritto sul registro degli indagati, dopo le denunce di alcuni sindacalisti fatte proprio sulla vendita dell'Istituto, l'ex presidente Gustavo De Meo.
L'inchiesta punta a chiarire anche la presunta svendita di alcuni immobili di pregio nel cuore di Trastevere e il progressivo svuotamento delle casse dello storico istituto delle guardie giurate capitoline e sarebbe stato accertato, ma è in corso una consulenza disposta dal pm, un «buco» di 80 milioni di euro. Intanto la tensione, anche per le condizioni di salute di alcuni dei manifestanti, si è sciolta oggi grazie ad un anniversario di matrimonio celebrato in modo molto particolare: con una rosa calata dall'alto, tramite la ormai solita corda che fa da portavivande per i sette «gladiatori».
Non hanno rinunciato a festeggiare i 30 anni del loro amore Giorgio, uno dei vigilantes che protestano, il più anziano, e la moglie Antonella. Una festa celebrata con un bacio a distanza e con quella rosa che Giorgio ha calato da cinquanta metri di altezza, raccolta dalla moglie che da tre giorni è giù in via dei Fori Imperiali con i due figli, in attesa che il marito torni a casa, magari con la prospettiva di un lavoro.
«La situazione è molto complessa e grave: ci sono almeno due persone che vivono una fragilità psicologica di estrema gravità - ha affermato il presidente della commissione Lavoro della Regione Lazio Giuseppe Mariani che questo pomeriggio ha visitato, in cima al Colosseo, le sette guardie giurate - Bisognerebbe pensare a una forma di supporto per loro, perchè ho paura che possano commettere gesti gravi».
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Quella prossima sarà la 4 notte di protesta, lassù a cinquanta metri di altezza, sul terzo anello di uno dei monumenti più noti e visitati del mondo. I «sette gladiatori», come li hanno ribattezzati i loro colleghi e i familiari che bivaccano a loro volta nei giardini di via del Fori Imperiali a Roma, hanno proseguito anche oggi il loro sit-in sul Colosseo.
Da tre giorni, e da domani anche da tre notti, i lavoratori dell'Istituto di vigilanza dell'Urbe sono sotto i riflettori delle telecamere e immortalati negli obiettivi dei fotoreporter per una protesta, modello "Innse", che domani potrebbe riservare un primo momento di possibile sblocco: il Campidoglio è intervenuto infatti per cercare di trovare una soluzione che fermi la clamorosa iniziativa attuata contro il cambio di gestione dell'ente dal quale dipendevano.
L'assessore capitolino alle Attività produttive Davide Bordoni ha convocato domani alle 11 in Campidoglio sindacalisti e rappresentanti dei 300 lavoratori che hanno rifiutato il contratto con la nuova società che ha rilevato l'Istituto. L'invito è stato accolto perchè, ha spiegato Marco Lucarelli delle RdB, «non rinunciamo al dialogo ma non fermiamo la protesta: la Prefettura è disposta ad aprire un tavolo ma solo se loro scendono dal Colosseo, e a queste condizioni non se ne fa nulla».
La vicenda dell'Istituto di Vigilanza Urbe è anche oggetto di una inchiesta giudiziaria. Nel mirino del pm Paolo D'Ovidio è l'Associazione nazionale combattenti di cui l'Istituto di Vigilanza Urbe, a cui appartengono le guardie giurate che hanno attuato da ieri la protesta al Colosseo, è una «costola». Il pm Paolo D'Ovidio ha aperto un fascicolo per appropriazione indebita per far luce sulla vendita del patrimonio immobiliare dell'Ente che percepisce, tra l'altro, finanziamenti anche dal Ministero della Difesa e dalla presidenza del Consiglio. E ha iscritto sul registro degli indagati, dopo le denunce di alcuni sindacalisti fatte proprio sulla vendita dell'Istituto, l'ex presidente Gustavo De Meo.
L'inchiesta punta a chiarire anche la presunta svendita di alcuni immobili di pregio nel cuore di Trastevere e il progressivo svuotamento delle casse dello storico istituto delle guardie giurate capitoline e sarebbe stato accertato, ma è in corso una consulenza disposta dal pm, un «buco» di 80 milioni di euro. Intanto la tensione, anche per le condizioni di salute di alcuni dei manifestanti, si è sciolta oggi grazie ad un anniversario di matrimonio celebrato in modo molto particolare: con una rosa calata dall'alto, tramite la ormai solita corda che fa da portavivande per i sette «gladiatori».
Non hanno rinunciato a festeggiare i 30 anni del loro amore Giorgio, uno dei vigilantes che protestano, il più anziano, e la moglie Antonella. Una festa celebrata con un bacio a distanza e con quella rosa che Giorgio ha calato da cinquanta metri di altezza, raccolta dalla moglie che da tre giorni è giù in via dei Fori Imperiali con i due figli, in attesa che il marito torni a casa, magari con la prospettiva di un lavoro.
«La situazione è molto complessa e grave: ci sono almeno due persone che vivono una fragilità psicologica di estrema gravità - ha affermato il presidente della commissione Lavoro della Regione Lazio Giuseppe Mariani che questo pomeriggio ha visitato, in cima al Colosseo, le sette guardie giurate - Bisognerebbe pensare a una forma di supporto per loro, perchè ho paura che possano commettere gesti gravi».
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venerdì 14 agosto 2009
Finisce l'odissea dei "ribelli" Cim
"Abbiamo vinto". Finisce l'odissea dei "ribelli" Cim
di Felicia Masocco Pronti a resistere un minuto in più di chi li avrebbe resi disoccupati, sono scesi dalla torre miscelatrice intorno alle 15.30 di ieri, «commossi e orgogliosi» per aver vinto. Se non la guerra, almeno una battaglia. Giuliano, Luca e Giulio hanno ancora i vestiti da lavoro impolverati con cui 4 giorni fa sono saliti sulla struttura alta 37 metri che domina la distesa di ulivi di questa zona a una quarantina di chilometri a est di Roma. Ad aspettarli ci sono i colleghi, i tre che erano con loro al momento del blitz e quelli rimasti a terra. Ci sono familiari, sindacalisti, i proprietari della Cim.
Arriva anche il fondatore dell’azienda che produce intonaci, è il capostipite Filiberto Bernardoni, suona il clacson, lampeggia con i fari, la soddisfazione è di tutti. Sono abbracci, applausi, «bravi» grida qualcuno, si brinda. C’è anche Paolo costretto a scendere la sera prima per un malore causato dalla lunga esposizione al sole e dal freddo delle notti. Giuliano piange,
«Ce l’avete fatta», gli viene detto. «Per ora», risponde». Per ora è tutto sospeso, lo sfratto e le vicende della cava. Ci sono volute quattro ore di trattativa in prefettura per decidere che il 3 settembre si terrà in Regione una conferenza di servizi per capire come uscirne. Intanto lunedì riprende l’attività, non piena per via delle ferie, ma si continua.
La buona notizia è arrivata per sms, «Preparatevi a scendere» scriveva Aldo Tozzi, nella Rsu per la Filca Cisl. Lo racconta lui stesso mentre dalla tasca estrae un drappo rosso, lo mostra. Al centro ha il disegno di due ingranaggi perché non sono edili quelli che l’hanno inviato, ma metalmeccanici. È il simbolo della solidarietà degli operai della Innse di Lambrate, ormai capiscuola di questa forma di protesta che fa proseliti e inizia a far discutere.
La bandiera era stata affidata a due giornalisti che erano a Lambrate l’altra notte, perché la portassero a Marcellina. Gli operai l’hanno affiancata a quelle della Cisl e a quelle della Cgil, sulla vetta della torre. Poi l’hanno ripiegata: «Porta bene», dice Tozzi. E con la salvezza del posto di lavoro per 105 addetti, tra dipendenti diretti e indotto, il «filo» operaio tessuto a sorpresa sembra essere per i ribelli di Marcellina il secondo risultato di cui andar fieri.
C’era un ponte telefonico tra i due gruppi di lavoratori, «Dopo la loro vittoria ci hanno chiamato e dopo un secondo di silenzio ci hanno fatto un applauso», racconta Giuliano, «Ora gli telefoniamo». «Faremo un gemellaggio - continua Tozzi - li incontreremo a settembre per conoscerli di persona».
Non importa se alla Innse è stata la Fiom-Cgil a guidare la protesta che qui porta i colori della Filca-Cisl: la disoccupazione è uguale per tutti e chi lavora lo sa. In tempi di divisioni sindacali si dovrebbe tenerlo a mente. «Ci siamo ispirati a loro. Eravamo a casa mia - continua il delegato - avevo visto il telegiornale, dovevamo trovare una forma di lotta che smuovesse le acque. Facciamo come loro, ho detto. La mattina dopo in sette sono saliti su».
Quattro di questi hanno un contratto a termine. Luca, 29 anni, Enzo 47, Paolo e un altro collega. Scadono nei prossimi mesi. Verranno rinnovati? «Speriamo», rispondono in coro. «E speriamo che sia di più mesi», dice Luca che che ha la “durata” di una stagione. Anche questa è una sorpresa. A difendere l’azienda non c’è solo chi, come Giuliano ha un contratto a tempo indeterminato e, come racconta, «tutto da perdere».
A sfidare il sole per 4 giorni per portare la Cim di Marcellina sul proscenio delle cronache, c’erano anche loro, i precari. A difesa di una «speranza».
ALTRI OPERAI IN LOTTA X IL POSTO DI LAVORO ......................
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di Felicia Masocco Pronti a resistere un minuto in più di chi li avrebbe resi disoccupati, sono scesi dalla torre miscelatrice intorno alle 15.30 di ieri, «commossi e orgogliosi» per aver vinto. Se non la guerra, almeno una battaglia. Giuliano, Luca e Giulio hanno ancora i vestiti da lavoro impolverati con cui 4 giorni fa sono saliti sulla struttura alta 37 metri che domina la distesa di ulivi di questa zona a una quarantina di chilometri a est di Roma. Ad aspettarli ci sono i colleghi, i tre che erano con loro al momento del blitz e quelli rimasti a terra. Ci sono familiari, sindacalisti, i proprietari della Cim.
Arriva anche il fondatore dell’azienda che produce intonaci, è il capostipite Filiberto Bernardoni, suona il clacson, lampeggia con i fari, la soddisfazione è di tutti. Sono abbracci, applausi, «bravi» grida qualcuno, si brinda. C’è anche Paolo costretto a scendere la sera prima per un malore causato dalla lunga esposizione al sole e dal freddo delle notti. Giuliano piange,
«Ce l’avete fatta», gli viene detto. «Per ora», risponde». Per ora è tutto sospeso, lo sfratto e le vicende della cava. Ci sono volute quattro ore di trattativa in prefettura per decidere che il 3 settembre si terrà in Regione una conferenza di servizi per capire come uscirne. Intanto lunedì riprende l’attività, non piena per via delle ferie, ma si continua.
La buona notizia è arrivata per sms, «Preparatevi a scendere» scriveva Aldo Tozzi, nella Rsu per la Filca Cisl. Lo racconta lui stesso mentre dalla tasca estrae un drappo rosso, lo mostra. Al centro ha il disegno di due ingranaggi perché non sono edili quelli che l’hanno inviato, ma metalmeccanici. È il simbolo della solidarietà degli operai della Innse di Lambrate, ormai capiscuola di questa forma di protesta che fa proseliti e inizia a far discutere.
La bandiera era stata affidata a due giornalisti che erano a Lambrate l’altra notte, perché la portassero a Marcellina. Gli operai l’hanno affiancata a quelle della Cisl e a quelle della Cgil, sulla vetta della torre. Poi l’hanno ripiegata: «Porta bene», dice Tozzi. E con la salvezza del posto di lavoro per 105 addetti, tra dipendenti diretti e indotto, il «filo» operaio tessuto a sorpresa sembra essere per i ribelli di Marcellina il secondo risultato di cui andar fieri.
C’era un ponte telefonico tra i due gruppi di lavoratori, «Dopo la loro vittoria ci hanno chiamato e dopo un secondo di silenzio ci hanno fatto un applauso», racconta Giuliano, «Ora gli telefoniamo». «Faremo un gemellaggio - continua Tozzi - li incontreremo a settembre per conoscerli di persona».
Non importa se alla Innse è stata la Fiom-Cgil a guidare la protesta che qui porta i colori della Filca-Cisl: la disoccupazione è uguale per tutti e chi lavora lo sa. In tempi di divisioni sindacali si dovrebbe tenerlo a mente. «Ci siamo ispirati a loro. Eravamo a casa mia - continua il delegato - avevo visto il telegiornale, dovevamo trovare una forma di lotta che smuovesse le acque. Facciamo come loro, ho detto. La mattina dopo in sette sono saliti su».
Quattro di questi hanno un contratto a termine. Luca, 29 anni, Enzo 47, Paolo e un altro collega. Scadono nei prossimi mesi. Verranno rinnovati? «Speriamo», rispondono in coro. «E speriamo che sia di più mesi», dice Luca che che ha la “durata” di una stagione. Anche questa è una sorpresa. A difendere l’azienda non c’è solo chi, come Giuliano ha un contratto a tempo indeterminato e, come racconta, «tutto da perdere».
A sfidare il sole per 4 giorni per portare la Cim di Marcellina sul proscenio delle cronache, c’erano anche loro, i precari. A difesa di una «speranza».
ALTRI OPERAI IN LOTTA X IL POSTO DI LAVORO ......................
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giovedì 13 agosto 2009
Rinaldini (Fiom) fa il bilancio della lotta dell'Innse
Rinaldini (Fiom) fa il bilancio della lotta dell'Innse
13/08/2009 | Manifesto | Lavoro
«Una vittoria pulita che ridà speranza»
Il segretario della Fiom Gianni Rinaldini adesso può andare in vacanza. Dove? «Non lo so, non ho avuto tempo di pensarci in questi giorni». Dal 2 agosto, con Giorgio Cremaschi (Fiom nazionale) e Maria Sciancati (Fiom milanese), è stato in pianta stabile al presidio in via Rubattino. Ha tenuto i contatti con i cinque «gruisti», martedì notte ha festeggiato l'esito positivo della vicenda.
Che effetto fa vincere? Succede così di rado di questi tempi che uno si disabitua.
Mi sento liberato da una grande angoscia, sereno. Sì, gli operai della Innse hanno vinto. E quindi, con loro, possiamo dire: abbiamo vinto. Ho provato la stessa emozione, lo stesso entusiasmo dei 21 giorni alla Fiat di Melfi. Questa volta però abbiamo vinto a Milano. E la città ne aveva davvero bisogno. Qui l'industria, e il tessuto sociale che le era connesso, hanno subìto una devastazione senza eguali. E' la prima volta da anni che a Milano i lavoratori e il sindacato colgono una vittoria, e così pulita. Certo, il successo parla a tutto il paese, ma io ci tengo a sottolineare il fatto che tutto ciò è avvenuto a Milano.
Proviamo ad analizzare le ragioni di questa vittoria. Il primo elemento è la coincidenza temporale tra il precipitare della vicenda Innse e il precipitare della crisa economica.
La vicenda Innse è una plastica rappresentazione in piccolo dei motivi che hanno prodotto la crisi globale. C'è l'abbandono di un'azienda industriale, regalata a un rottamatore che vuole speculare sulle macchine. Tutte le più fulgide menti giocano sulla roulette della finanza e degli affari immobiliari. Poi scoppiano le bolle e dopo la sbornia ci si accorge che l'industria, la manifattura, ha ancora delle carte da giocare. Vorrà dire qualcosa se in pochi giorni, prima che si facesse avanti il gruppo Camozzi, erano pervenute altre tre manifestazioni d'interesse per acquisire l'Innse e proseguire l'attività industriale. Questa è una sonora smentita per i santoni che, senza neppure conoscere la situazione, dicevano che bisognava mollare, ricollocare altrove i 49 lavoratori e morta lì. Spero che l'esito positivo serva da lezione a questi santoni, li induca a riflettere prima di pontificare. Vadano a leggersi l'accordo. C'è scritto che nell'area dell'Innse di Lambrate si farà attività industriale fino al 2025. Una garanzia per un arco di tempo così lungo è inusuale. Significa che il Gruppo Camozzi crede in quel che fa.
Lo scenario bigio che si annuncia per settembre ha convinto il governo e le forze politiche che lo compongono che una soluzione per la Innse andava trovata?
Hanno annusato l'aria. Hanno capito che nell'opinione pubblica la lotta dell'Innse acquistava popolarità e consenso crescenti. Penso che l'intervento pedagogico di Gianni Letta sulle forze politiche lombarde della maggioranza, che all'inizio non avevano colto la valenza simbolica dell'Innse, sia servito.
Arriviamo a quello che è il cuore della vittoria all'Innse: la qualità, la stoffa, di quei 49 operai.
Questi operai hanno resistito 15 mesi, sono stati sorretti dal rapporto che hanno non con il lavoro, ma con il loro lavoro. E' gente professionalizzata, con un grandissimo orgoglio di mestiere. Cosa rara di questi tempi.
Quelli rimasti sul carroponte per una settimana sono cinquantenni. Uno, addiritutta, di anni ne ha sessanta. E' una razza in via d'estinzione? Non sembrano esserci nuove leve che raccolgano il testimone di un rapporto così intenso con il proprio lavoro.
Tutto dipende dal lavoro che si fa e dalla soggettività che ci metti. Anche in pieno autunno caldo, quando era l'operaio massa a dare la linea, non è che tutti fossero catenari. E pure adesso c'è una differenza abissale tra un operaio provetto alla Fincantieri e uno che gira i bulloni in una fabbrica di lavatrici. Comunque sia, quelli della Innse insegnano che non si è condannati alla pura resistenza. Se c'è un elemento forte di soggettività, si possono ottenere risultati.
E' innegabile che i media abbiano contribuito al successo.
L'azione eclatante ha attirato l'attenzione. Ma questo non spiega tutto, perchè i casi di operai che salgono su una ciminiera o su una torre sono numerosi. E quasi sempre nessuno se li fila. Qui, prima che i cinque salissero sul carroponte, c'era stata una lotta di lunga durata. L'azione eclatante è stata l'ultima mossa, dettata dalla razionalità non dalla disperazione: se lasciavano smontare le macchine, se le lasciavano portare via, per loro era finita.
A proposito di macchine. L'impressione è che i 49 dell'Innse siano innamorati dei loro torni e delle loro alesatrici.
Hanno fatto tre mesi di autogestione gratis. Poi, appena riuscivano a intrufolarsi dentro facevano manutenzione per tenerle pronte. Torniamo al discorso di prima, all'identità con il proprio lavoro che è un elemento in più rispetto all'identità di classe. Il nuovo proprietario, il cavaliere del lavoro Attilio Camozzi, sulle macchine la pensa come gli operai dell'Innse. Senza quelle, non avrebbe comprato.
La grande attenzione data al caso Innse ha suscitato una certa invidia da parte dei lavoratori di altre aziende in lotta. Perché di loro si parla e di noi no?
Sappiamo che i casi si contano a decine. Tocca al sindacato unificare queste lotte, metterle in contatto tra loro. Il Tg3 ha garantito un'ottima copertura alla vicenda Innse e, anche per questo, si è meritato l'attacco di Berlusconi. Bisogna che almeno il servizio pubblico restituisca una fotografia del paese reale, metta al centro il problema del lavoro. Solo così tutte le lotte avranno lo spazio mediatico che si meritano.
All'Innse si è vista all'opera una comunità. Diversa da quelle balorde o malvage di chi si mette insieme per ripulire il territorio da zingari e migranti.
La parola comunità non mi piace, indica qualcosa che esclude invece di includere. Preferisco parlare di esperienza collettiva, in cui si passava da momenti di euforia a momenti di scoramento.
Il tuo giudizio sull'accordo.
Sul versante sindacale è assolutamente pulito. Martedì sera ci avevano presentato una bozza che non contemplava la garanzia della riassunzione per tutti i 49. L'abbiamo corretta e Camozzi ha firmato. Temevamo il graffio finale, non c'è stato.
La Fiom come capitalizzerà la vittoria?
Il successo all'Innse è un messaggio di speranza per tutti i lavoratori, non solo per i metalmeccanici. Dice che la lotta paga, enon è una frase fatta. Ci dà forza per le partite del prossimo autunno, rinnovo del contratto compreso.
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13/08/2009 | Manifesto | Lavoro
«Una vittoria pulita che ridà speranza»
Il segretario della Fiom Gianni Rinaldini adesso può andare in vacanza. Dove? «Non lo so, non ho avuto tempo di pensarci in questi giorni». Dal 2 agosto, con Giorgio Cremaschi (Fiom nazionale) e Maria Sciancati (Fiom milanese), è stato in pianta stabile al presidio in via Rubattino. Ha tenuto i contatti con i cinque «gruisti», martedì notte ha festeggiato l'esito positivo della vicenda.
Che effetto fa vincere? Succede così di rado di questi tempi che uno si disabitua.
Mi sento liberato da una grande angoscia, sereno. Sì, gli operai della Innse hanno vinto. E quindi, con loro, possiamo dire: abbiamo vinto. Ho provato la stessa emozione, lo stesso entusiasmo dei 21 giorni alla Fiat di Melfi. Questa volta però abbiamo vinto a Milano. E la città ne aveva davvero bisogno. Qui l'industria, e il tessuto sociale che le era connesso, hanno subìto una devastazione senza eguali. E' la prima volta da anni che a Milano i lavoratori e il sindacato colgono una vittoria, e così pulita. Certo, il successo parla a tutto il paese, ma io ci tengo a sottolineare il fatto che tutto ciò è avvenuto a Milano.
Proviamo ad analizzare le ragioni di questa vittoria. Il primo elemento è la coincidenza temporale tra il precipitare della vicenda Innse e il precipitare della crisa economica.
La vicenda Innse è una plastica rappresentazione in piccolo dei motivi che hanno prodotto la crisi globale. C'è l'abbandono di un'azienda industriale, regalata a un rottamatore che vuole speculare sulle macchine. Tutte le più fulgide menti giocano sulla roulette della finanza e degli affari immobiliari. Poi scoppiano le bolle e dopo la sbornia ci si accorge che l'industria, la manifattura, ha ancora delle carte da giocare. Vorrà dire qualcosa se in pochi giorni, prima che si facesse avanti il gruppo Camozzi, erano pervenute altre tre manifestazioni d'interesse per acquisire l'Innse e proseguire l'attività industriale. Questa è una sonora smentita per i santoni che, senza neppure conoscere la situazione, dicevano che bisognava mollare, ricollocare altrove i 49 lavoratori e morta lì. Spero che l'esito positivo serva da lezione a questi santoni, li induca a riflettere prima di pontificare. Vadano a leggersi l'accordo. C'è scritto che nell'area dell'Innse di Lambrate si farà attività industriale fino al 2025. Una garanzia per un arco di tempo così lungo è inusuale. Significa che il Gruppo Camozzi crede in quel che fa.
Lo scenario bigio che si annuncia per settembre ha convinto il governo e le forze politiche che lo compongono che una soluzione per la Innse andava trovata?
Hanno annusato l'aria. Hanno capito che nell'opinione pubblica la lotta dell'Innse acquistava popolarità e consenso crescenti. Penso che l'intervento pedagogico di Gianni Letta sulle forze politiche lombarde della maggioranza, che all'inizio non avevano colto la valenza simbolica dell'Innse, sia servito.
Arriviamo a quello che è il cuore della vittoria all'Innse: la qualità, la stoffa, di quei 49 operai.
Questi operai hanno resistito 15 mesi, sono stati sorretti dal rapporto che hanno non con il lavoro, ma con il loro lavoro. E' gente professionalizzata, con un grandissimo orgoglio di mestiere. Cosa rara di questi tempi.
Quelli rimasti sul carroponte per una settimana sono cinquantenni. Uno, addiritutta, di anni ne ha sessanta. E' una razza in via d'estinzione? Non sembrano esserci nuove leve che raccolgano il testimone di un rapporto così intenso con il proprio lavoro.
Tutto dipende dal lavoro che si fa e dalla soggettività che ci metti. Anche in pieno autunno caldo, quando era l'operaio massa a dare la linea, non è che tutti fossero catenari. E pure adesso c'è una differenza abissale tra un operaio provetto alla Fincantieri e uno che gira i bulloni in una fabbrica di lavatrici. Comunque sia, quelli della Innse insegnano che non si è condannati alla pura resistenza. Se c'è un elemento forte di soggettività, si possono ottenere risultati.
E' innegabile che i media abbiano contribuito al successo.
L'azione eclatante ha attirato l'attenzione. Ma questo non spiega tutto, perchè i casi di operai che salgono su una ciminiera o su una torre sono numerosi. E quasi sempre nessuno se li fila. Qui, prima che i cinque salissero sul carroponte, c'era stata una lotta di lunga durata. L'azione eclatante è stata l'ultima mossa, dettata dalla razionalità non dalla disperazione: se lasciavano smontare le macchine, se le lasciavano portare via, per loro era finita.
A proposito di macchine. L'impressione è che i 49 dell'Innse siano innamorati dei loro torni e delle loro alesatrici.
Hanno fatto tre mesi di autogestione gratis. Poi, appena riuscivano a intrufolarsi dentro facevano manutenzione per tenerle pronte. Torniamo al discorso di prima, all'identità con il proprio lavoro che è un elemento in più rispetto all'identità di classe. Il nuovo proprietario, il cavaliere del lavoro Attilio Camozzi, sulle macchine la pensa come gli operai dell'Innse. Senza quelle, non avrebbe comprato.
La grande attenzione data al caso Innse ha suscitato una certa invidia da parte dei lavoratori di altre aziende in lotta. Perché di loro si parla e di noi no?
Sappiamo che i casi si contano a decine. Tocca al sindacato unificare queste lotte, metterle in contatto tra loro. Il Tg3 ha garantito un'ottima copertura alla vicenda Innse e, anche per questo, si è meritato l'attacco di Berlusconi. Bisogna che almeno il servizio pubblico restituisca una fotografia del paese reale, metta al centro il problema del lavoro. Solo così tutte le lotte avranno lo spazio mediatico che si meritano.
All'Innse si è vista all'opera una comunità. Diversa da quelle balorde o malvage di chi si mette insieme per ripulire il territorio da zingari e migranti.
La parola comunità non mi piace, indica qualcosa che esclude invece di includere. Preferisco parlare di esperienza collettiva, in cui si passava da momenti di euforia a momenti di scoramento.
Il tuo giudizio sull'accordo.
Sul versante sindacale è assolutamente pulito. Martedì sera ci avevano presentato una bozza che non contemplava la garanzia della riassunzione per tutti i 49. L'abbiamo corretta e Camozzi ha firmato. Temevamo il graffio finale, non c'è stato.
La Fiom come capitalizzerà la vittoria?
Il successo all'Innse è un messaggio di speranza per tutti i lavoratori, non solo per i metalmeccanici. Dice che la lotta paga, enon è una frase fatta. Ci dà forza per le partite del prossimo autunno, rinnovo del contratto compreso.
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Agricoltura: 'Oro rosso' una campagna contro il lavoro nero e lo schiavismo
Agricoltura: 'Oro rosso' una campagna contro il lavoro nero e lo schiavismo
FLAI-CGIL,
almeno il 60% dei pomodori in Italia sono raccolti sfruttando il lavoro nero.
Come sindacato vogliamo indignarci ed intervenire
Una straordinaria mobilitazione per dire no allo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura e alla sistematica negazione dei più elementari diritti dei migranti impiegati nel settore. Sono questi i temi promossi nella campagna nazionale 'Oro rosso – dal reality alla realtà' organizzata dalla CGIL e dalla FLAI nazionale, regionale e di Capitanata nelle giornate comprese tra il 2 e il 12 agosto, presentata oggi alla Camera del Lavoro Territoriale di Foggia nel corso di una conferenza stampa.
Sono 40 i dirigenti della CGIL e della FLAI, provenienti da tutte le regioni d'Italia, che, durante queste dieci giornate, si sommeranno ad altrettanti dirigenti della Puglia e della Capitanata, impegnandosi in un quotidiano presidio delle campagne per un'azione di tutela e informazione delle lavoratrici e dei lavoratori sui propri diritti.
La mobilitazione fa seguito alle iniziative che CGIL e FLAI di Foggia hanno messo in campo per contrastare il fenomeno del lavoro nero e dello sfruttamento dei braccianti nell’agro di Capitanata, spesso sfociato in vere e proprie forme di riduzione in schiavitù ai danni dei lavoratori stranieri. Dal “Camper dei diritti” del 2007 al progetto “Diritti in campo” dello scorso anno, la CGIL e la FLAI sono impegnate in nuove forme di tutela e vertenzialità itinerante, un presidio democratico di quelle campagne che soprattutto nel periodo estivo, in concomitanza con la raccolta del pomodoro, diventano in provincia di Foggia meta privilegiata per migliaia di lavoratori stranieri.
“Da diversi anni nella pianura di Foggia la FLAI-CGIL tenta di contrastare con costanti iniziative il selvaggio sfruttamento che è praticato da parte di ben individuati soggetti senza scrupoli ai danni di decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori” spiega il sindacato in una nota, e aggiunge “Agrari, caporali, faccendieri, criminalità organizzata hanno ricomposto un cartello che trova nello sfruttamento di lavoratrici e lavoratori del settore agricolo una redditizia attività economica. I metodi utilizzati – prosegue la nota – sono sempre gli stessi: imposizione di uno stato di terrore pubblico e privato, minacce e violenze individuali, ricatti e ritorsioni. Metodi che, fatti propri dalla criminalità organizzata, trovano l'affermazione di una cultura antistatale e antidemocratica”.
E' il Segretario Nazionale della FLAI-CGIL Salvatore Lo Balbo, nel corso della conferenza stampa, ad illustrare la grave situazione del lavoro nero in agricoltura, spiegando che “almeno il 60% dei pomodori in Italia sono raccolti sfruttando il lavoro nero”.”Camminando per le strade di campagna – prosegue il Segretario - si vedono centinaia di lavoratori sui quali non si operano i giusti controlli”.”Come FLAI e come sindacato vogliamo indignarci ed intervenire”.
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mercoledì 12 agosto 2009
domenica 9 agosto 2009
Scendono in piazza gli operai dell’AvtoVaz
Scendono in piazza gli operai dell’AvtoVaz
Gli impianti AvtoVaz di Togliattigrad
Per la prima volta, gli operai di AvtoVaz, la più grossa impresa automobilistica russa, sono scesi oggi in piazza a Togliattigrad per protestare contro i tagli alla produzione (e alle paghe dei dipendenti) annunciati dalla direzione aziendale, e per chiedere che lo stato intervenga nella vicenda nazionalizzando l’azienda. A manifestare per le vie della città (nella regione di Samara, Russia centrale) sono stati circa cinquemila operai, in presenza di un massiccio schieramento di polizia in assetto antisommossa – che però non è intervenuto e non ha impedito la manifestazione. La direzione di AvtoVaz (un acronimo dal nome russo che sta per “fabbrica di automobili del Volga”, il fiume su cui sorge Togliattigrad) ha deciso di chiudere gli impianti per tutto il mese di agosto, tagliando di un terzo le paghe dei dipendenti per il mese, e di farli funzionare solo due settimane al mese per il semestre successivo – sempre con relativa riduzione delle paghe. La paga media (intera) di un operaio della fabbrica, oggi, è di circa 500 euro al mese. La protesta operaia è diretta contro il management aziendale che – dicono i sindacalisti – avrebbe dovuto prevedere già da tempo la crisi di vendite che andava maturando, e prendere provvedimenti adeguati modificando la propria politica commerciale. Su un terreno simile sembra stia muovendosi il governo; un esponente politico di primo piano ha ieri suggerito alla direzione di AvtoVaz di tagliare drasticamente i prezzi di vendita, per smaltire almeno il tremendo stock di auto invendute che si stanno accumulando nei piazzali (circa 90mila vetture, a oggi). Il governo finora aveva sempre cercato di difendere le aziende automobilistiche nazionali attraverso il ricorso a dazi doganali sulle importazioni, ottenendo però soltanto il risultato di creare un forte scontento sociale nelle regioni dell’estremo oriente, dove da anni si è sviluppata una branca dell’economia basata proprio sull’import di auto, soprattutto usate, dal Giappone e dalla Corea. Quanto alle vendite di auto “nazionali”, avevano invece proseguito la loro discesa inarrestabile, dato che la crisi globale sta colpendo in primo luogo proprio le classi medio-basse, cioè il mercato di destinazione dei modelli economici e di bassa qualità (eredi della celebre Zhigulì) prodotti da AvtoVaz. Quanto ai destini di quest’ultima, appaiono oggi molto incerti: solo un anno fa era stato firmato un importante accordo con la Rénault, con cui l’azienda francese acquisiva circa un quarto di proprietà della casa di Togliattigrad, con il progetto di installare negli stabilimenti russi linee di montaggio di alcuni suoi modelli. Ma questo avveniva prima della crisi.
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Gli impianti AvtoVaz di Togliattigrad
Per la prima volta, gli operai di AvtoVaz, la più grossa impresa automobilistica russa, sono scesi oggi in piazza a Togliattigrad per protestare contro i tagli alla produzione (e alle paghe dei dipendenti) annunciati dalla direzione aziendale, e per chiedere che lo stato intervenga nella vicenda nazionalizzando l’azienda. A manifestare per le vie della città (nella regione di Samara, Russia centrale) sono stati circa cinquemila operai, in presenza di un massiccio schieramento di polizia in assetto antisommossa – che però non è intervenuto e non ha impedito la manifestazione. La direzione di AvtoVaz (un acronimo dal nome russo che sta per “fabbrica di automobili del Volga”, il fiume su cui sorge Togliattigrad) ha deciso di chiudere gli impianti per tutto il mese di agosto, tagliando di un terzo le paghe dei dipendenti per il mese, e di farli funzionare solo due settimane al mese per il semestre successivo – sempre con relativa riduzione delle paghe. La paga media (intera) di un operaio della fabbrica, oggi, è di circa 500 euro al mese. La protesta operaia è diretta contro il management aziendale che – dicono i sindacalisti – avrebbe dovuto prevedere già da tempo la crisi di vendite che andava maturando, e prendere provvedimenti adeguati modificando la propria politica commerciale. Su un terreno simile sembra stia muovendosi il governo; un esponente politico di primo piano ha ieri suggerito alla direzione di AvtoVaz di tagliare drasticamente i prezzi di vendita, per smaltire almeno il tremendo stock di auto invendute che si stanno accumulando nei piazzali (circa 90mila vetture, a oggi). Il governo finora aveva sempre cercato di difendere le aziende automobilistiche nazionali attraverso il ricorso a dazi doganali sulle importazioni, ottenendo però soltanto il risultato di creare un forte scontento sociale nelle regioni dell’estremo oriente, dove da anni si è sviluppata una branca dell’economia basata proprio sull’import di auto, soprattutto usate, dal Giappone e dalla Corea. Quanto alle vendite di auto “nazionali”, avevano invece proseguito la loro discesa inarrestabile, dato che la crisi globale sta colpendo in primo luogo proprio le classi medio-basse, cioè il mercato di destinazione dei modelli economici e di bassa qualità (eredi della celebre Zhigulì) prodotti da AvtoVaz. Quanto ai destini di quest’ultima, appaiono oggi molto incerti: solo un anno fa era stato firmato un importante accordo con la Rénault, con cui l’azienda francese acquisiva circa un quarto di proprietà della casa di Togliattigrad, con il progetto di installare negli stabilimenti russi linee di montaggio di alcuni suoi modelli. Ma questo avveniva prima della crisi.
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Grandi Tragedie dell'Emigrazione Italiana - Marcinelle -
Dal 1946 al 1956 il numero dei lavoratori, provenienti dall'Italia, morti nelle miniere belghe e in altri incedenti sul lavoro è di oltre seicento.
--A causa di un errore umano, l'8 agosto 1956 il Belgio venne scosso da una tragedia senza precedenti, un incendio scoppiato in uno dei pozzi della miniera di carbon fossile del Bois du Cazier, causò la morte di 262 persone di dodici diverse nazionalità, soprattutto italiane, 136 vittime, poi belghe, 95; fu una tragedia agghiacciante, i minatori rimasero senza via di scampo, soffocati dalle esalazioni di gas. --Le operazioni di salvataggio furono disperate fino al 23 agosto quando uno dei soccorritori pronunciò in italiano: "Tutti cadaveri!"
amici delle miniere
•Marcinelle - Le Bois du Cazier - il Museo
•VIA - Opera Teatrale di Fabrizio Saccomanno dedicata alla tragedia di Marcinelle
•Marcinelle - Le Bois du Cazier - 8 agosto 1956 -
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--Solo dopo la tremenda tragedia di Marcinelle venne finalmente introdotta nelle miniere del Belgio la maschera antigas. Le condizioni in cui lavoravano i minatori erano deplorevoli; il Governo Italiano per la reazione scandalizzata della popolazione, della stampa e dei sindacati di fronte all'alta frequenza con cui si succedevano gli incidenti nelle miniere belghe, interruppe a volte l'enorme esodo di manovali italiani verso il Belgio. Altra conseguenza fu una regolamentazione più severa in materia di sicurezza sul lavoro. --In quegli anni partirono per il Belgio 140'000 lavoratori, 18'000 donne e 29'000 bambini, moltissimi di loro erano di San Giovanni in Fiore, Caccuri, Cerenzia, Castelsilano, Santa Severina, Rocca Bernarda, Savelli, Scandale, di tutta la Sila e dell'intero Marchesato di Crotone. Un fiume di Calabresi giunse in Belgio con i convogli ferroviari che partivano da Milano.
--La tragedia della miniera di Marcinelle, dopo quella della miniera di Monongah in West Virginia, è la più grande della storia dell'emigrazione italiana.
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--A causa di un errore umano, l'8 agosto 1956 il Belgio venne scosso da una tragedia senza precedenti, un incendio scoppiato in uno dei pozzi della miniera di carbon fossile del Bois du Cazier, causò la morte di 262 persone di dodici diverse nazionalità, soprattutto italiane, 136 vittime, poi belghe, 95; fu una tragedia agghiacciante, i minatori rimasero senza via di scampo, soffocati dalle esalazioni di gas. --Le operazioni di salvataggio furono disperate fino al 23 agosto quando uno dei soccorritori pronunciò in italiano: "Tutti cadaveri!"
amici delle miniere
•Marcinelle - Le Bois du Cazier - il Museo
•VIA - Opera Teatrale di Fabrizio Saccomanno dedicata alla tragedia di Marcinelle
•Marcinelle - Le Bois du Cazier - 8 agosto 1956 -
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--Solo dopo la tremenda tragedia di Marcinelle venne finalmente introdotta nelle miniere del Belgio la maschera antigas. Le condizioni in cui lavoravano i minatori erano deplorevoli; il Governo Italiano per la reazione scandalizzata della popolazione, della stampa e dei sindacati di fronte all'alta frequenza con cui si succedevano gli incidenti nelle miniere belghe, interruppe a volte l'enorme esodo di manovali italiani verso il Belgio. Altra conseguenza fu una regolamentazione più severa in materia di sicurezza sul lavoro. --In quegli anni partirono per il Belgio 140'000 lavoratori, 18'000 donne e 29'000 bambini, moltissimi di loro erano di San Giovanni in Fiore, Caccuri, Cerenzia, Castelsilano, Santa Severina, Rocca Bernarda, Savelli, Scandale, di tutta la Sila e dell'intero Marchesato di Crotone. Un fiume di Calabresi giunse in Belgio con i convogli ferroviari che partivano da Milano.
--La tragedia della miniera di Marcinelle, dopo quella della miniera di Monongah in West Virginia, è la più grande della storia dell'emigrazione italiana.
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giovedì 6 agosto 2009
INNSE Dateci risposte, noi siamo determinati a resistere
"Dateci risposte, noi siamo determinati a resistere"
«Stiamo bene ma siamo determinati a resistere», ripetono ai colleghi nel cuore della notte. Vincenzo, Massimo, Luigi, Fabio e Roberto, il funzionario della Fiom, i quattro operai della Innse di Milano, che 2 GIORNI FA sono entrati dentro la fabbrica e si sono arrampicati sui carri ponte come gesto di protesta contro lo smantellamento dei macchinari della storica azienda milanese, hanno trascorso la notte così. Fuori i loro colleghi a presidiare la fabbrica, dentro loro, arrampicati sulle gru.
Ci hanno pensato a lungo e poi hanno deciso. Hanno aggirato il blocco delle forze dell'ordine, sono entrati nella fabbrica e insieme a Roberto, funzionario della Fiom, si sono arrampicati sulle gru alte dieci metri «per difendere il nostro lavoro e il lavoro in generale». E da lì ancora non scendono. Sono lassù dalle 11 di ieri, invisibili ai loro colleghi che si battono con loro, perchè chiusi dentro la cabina in cima al braccio di metallo.
«Sono talmente determinati che potrebbero restare lì tutta la notte», aveva pronosticato il segretario della Fiom Gianni Rinaldini, che chiede una "sospensione vera": «Non pochi giorni come proposto dalla prefettura ma un mese». La situazione - avverte Rinaldini - «è senza sbocco». E domanda subito un intervento diretto di Berlusconi per bloccare lo smantellamento della fabbrica già iniziato. Le condizioni poste dal segretario della Fiom dopo un lungo incontro con gli operai della Innse sono: sospensione dello smontaggio per tutto il mese di agosto almeno, allontanamento del presidio delle forze dell'ordine, apertura di un tavolo negoziale.
Ad altre proposte gli operai della Innse hanno detto no. E con quel no si è chiusa la loro terza giornata di passione. Attraversata da molti momenti di tensione. Per i quattro in tuta blu sulle gru e per gli altri che si sono ritrovati anche oggi a fronteggiare la polizia in assetto anti-sommossa.
La quarta giornata di protesta è invece iniziata con una beffa. Al mattino, infatti, tra gli operai in presidio davanti alla fabbrica si diffonde la notizia che il proprietario, Genta, ha convocato una conferenza stampa davanti alla prefettura. Un corteo si stacca da via Rubattino e si precipita a Corso Monforte. Ma dell'imprenditore non c'è nessuna traccia. L'ennesima beffa. Incontro rinviato "per ragioni di sicurezza" spiega il legale dell'imprenditore.
Ieri per due volte gli operai della storica azienda metalmeccanica e le forze dell'ordine, che da domenica presidiano la fabbrica, sono venuti a contatto. Mentre i quattro della Innse riescono a infilarsi nella fabbrica. Un atto «pesante, di cui siamo consapevoli per la difesa del lavoro», rivendica la segretaria milanese della Fiom Maria Sciancati: «I lavoratori si sono accorti stamani entrando che la prima lesatrice è già stata completamente smontata e questo certamente li ha portati al gesto di protesta».
«Chi lavora qua da 30 anni sa da dove passare», ha spiegato sorridendo un collega, Claudio, mentre i cinque erano già nel capannone saliti in cima alle gru. Precisamente nelle cabine e quindi senza il rischio di precipitare. «Ci buttiamo giù», hanno cominciato a gridare. La polizia ha deciso di far allontanare gli operai delle ditte acquirenti dei macchinari. Sospese le operazioni di smontaggio, è cominciata la trattativa.
Gianni Rinaldini, Giorgio Cremaschi e Maria Sciancati della Fiom, facevano avanti e indietro per colloquiare con gli operai all'interno e portare notizie ai loro colleghi fuori, in mobilità dal maggio 2008 e che da 14 mesi presidiano la fabbrica. «La prima macchina è stata già smontata», ha annunciato Sciancati. Poi la richiesta del sindacato alla Prefettura con tre condizioni: sospendere lo smontaggio per agosto; allontanare il blocco delle forze dell'ordine e aprire un tavolo tra istituzioni, parti sociali e imprenditori.
Ore di attesa e poi Rinaldini è uscito dalla fabbrica con la risposta della Prefettura e quella degli operai: «Ci hanno proposto alcuni giorni di sospensione, che non sono sufficienti per una trattativa vera». Ora dunque, ha aggiunto, «scriviamo per chiedere un incontro e un intervento diretto di Berlusconi». Gli operai dalle gru facevano intanto sapere che «le trattative non si fanno con il cappio al collo» e «siamo determinati a resistere per tutta la notte e oltre».
Intanto, il proprietario della Innse, Silvano Genta, commenta la richiesta di trattative avanzata oggi dagli operai e il loro gesto di protesta: «Sono solo strumentalizzazioni politiche, le trattative si fanno a tavolino, con la testa sulle spalle e non con la violenza, perchè sono stato minacciato».
L'imprenditore tempo fa ha anche presentato una denuncia in Procura per l'occupazione della sua fabbrica ed è attualmente aperta un'inchiesta a carico di ignoti.
E spunta anche una lettera inviata il 27 gennaio dalla Rubattino 87, società proprietaria dell'area che fa capo alla Aedes. Nella missiva, una raccomandata con ricevuta di ritorno spedita poco prima che Genta vendesse i macchinari, si contesta alla Innse Iniziative srl che fa capo all'imprenditore «la occupazione di fatto dell'area e la mancata corresponsione di indennizzo adeguato» e lo si avvisa di un'imminente causa per ottenere il risarcimento danni e la riconsegna dell'area. L'ad di Aedes, Nicola Cinelli ha spiegato che «c'è oggi stato un incontro con un imprenditore, ma a livello assolutamente preliminare».
Sulla vicenda interviene anche il segretario Pd Franceschini: «La protesta dei 49 lavoratori della Innse è condivisibile ed è solo un primo segnale di quello che potrebbe accadere in autunno. I lavoratori della Innse vanno non solo sostenuti ma anche capiti - ha dichiarato Franceschini, dopo un incontro a Marghera con le organizzazioni sindacali della chimica -. La loro protesta è condivisibile perché siamo di fronte a impegni non mantenuti e tradimenti veri. Bisogna che la politica risponda coi fatti anche perché questi sono i primi segnali di quello che potrebbe avvenire in un autunno carico di tensioni se non vengono date risposte a chi non ce la può fare ad aspettare la fine della crisi senza aiuti da parte dello Stato». Per Franceschini, dunque, «servono misure per fronteggiare l'emergenza, a cominciare dagli ammortizzatori sociali».
.COSA SI DEVE FARE X DIFENDERE IL POSTO DI LAVORO ----------
domenica 2 agosto 2009
Repubblica delle scarpe contro dittatura delle banane
Repubblica delle scarpe contro dittatura delle banane
Le multinazionali delle scarpe sportive scrivono una lettera alla Casa Bianca condannando il governo di fatto.
Nike, Adidas e Gap, le principali multinazionali manifatturiere presenti in Honduras, si schierano "per la democrazia". Da un mese, da quando i militari golpisti destituirono il presidente legittimo Manuel Zelaya, le loro fabbriche nelle maras honduregne, dove il lavoro costa poco e i diritti dei lavoratori ancora meno, sono ferme. E la produzione multimilionaria cala.
Così, le mega aziende sportive hanno scelto di unirsi e scrivere una lettera ufficiale alla Casa Bianca, la loro casa madre, per condannare apertamente il golpe e pressare per un intervento più diretto nella reinstaurazione di Zelaya. Fatto raro che delle multinazionali prendano posizione politiche così chiare e ufficiali, meno raro che mettano il naso nella politica degli Stati in cui operano. Anzi, l'Honduras è da molti definito la Repubblica delle banane, per l'influenza devastante che da sempre hanno avuto le grandi aziende della frutta. Che, invece, tacciono, probabilmente perché tanto, troppo vicine a quelle dieci famiglie oligarchiche che il presidente Zelaya accusa di aver architettato il golpe per mantenere ricchezze e privilegi, trasformando quella repubblica in una dittatura.
Repubblica delle scarpe contro dittatura delle banane, dunque? Vedremo. Intanto, una copia della missiva di Gap, Adidas e Nike è arrivata sulla scrivania del Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, del segretario Osa, Jose Miguel Insulza, e del segretario di Stato americano per gli Affari dell'Emisfero occidentale, Thomas Shannon. Il contenuto è un appello perché sia restaurata la democrazia in Honduras.
I conti son presto fatti, dato che le cifre parlano chiaro. La manifattura honduregna esporta circa 3 miliardi di dollari all'anno e la maggior parte delle compagnie manifatturiere in Honduras sono statunitensi o asiatiche. La paga oraria per i disgraziati che non hanno altra scelta se non lavorare lì è da semischiavitù: 93 centesimi di dollaro all'ora. Per turni devastanti: dodici ore a 34 gradi, sempre in piedi e con un sola pausa di 30 minuti. Il tutto con la spada di Damocle del licenziamento, se solo un lavoratore osa iscriversi al sindacato.
E' evidente dunque che se sfruttatori simili sono arrivati a schierarsi con la democrazia, è perché i golpisti hanno deciso di non stare dalla loro parte. E quindi, via con le belle parole. Ma, ironia della sorte, questa lettera avrà molto più peso dei manifestanti morti e feriti, della gente in piazza nonostante il coprifuoco, e degli appelli veri e sinceri in nome dello Stato di diritto. Il diritto del business vince ancora.
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Le multinazionali delle scarpe sportive scrivono una lettera alla Casa Bianca condannando il governo di fatto.
Nike, Adidas e Gap, le principali multinazionali manifatturiere presenti in Honduras, si schierano "per la democrazia". Da un mese, da quando i militari golpisti destituirono il presidente legittimo Manuel Zelaya, le loro fabbriche nelle maras honduregne, dove il lavoro costa poco e i diritti dei lavoratori ancora meno, sono ferme. E la produzione multimilionaria cala.
Così, le mega aziende sportive hanno scelto di unirsi e scrivere una lettera ufficiale alla Casa Bianca, la loro casa madre, per condannare apertamente il golpe e pressare per un intervento più diretto nella reinstaurazione di Zelaya. Fatto raro che delle multinazionali prendano posizione politiche così chiare e ufficiali, meno raro che mettano il naso nella politica degli Stati in cui operano. Anzi, l'Honduras è da molti definito la Repubblica delle banane, per l'influenza devastante che da sempre hanno avuto le grandi aziende della frutta. Che, invece, tacciono, probabilmente perché tanto, troppo vicine a quelle dieci famiglie oligarchiche che il presidente Zelaya accusa di aver architettato il golpe per mantenere ricchezze e privilegi, trasformando quella repubblica in una dittatura.
Repubblica delle scarpe contro dittatura delle banane, dunque? Vedremo. Intanto, una copia della missiva di Gap, Adidas e Nike è arrivata sulla scrivania del Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, del segretario Osa, Jose Miguel Insulza, e del segretario di Stato americano per gli Affari dell'Emisfero occidentale, Thomas Shannon. Il contenuto è un appello perché sia restaurata la democrazia in Honduras.
I conti son presto fatti, dato che le cifre parlano chiaro. La manifattura honduregna esporta circa 3 miliardi di dollari all'anno e la maggior parte delle compagnie manifatturiere in Honduras sono statunitensi o asiatiche. La paga oraria per i disgraziati che non hanno altra scelta se non lavorare lì è da semischiavitù: 93 centesimi di dollaro all'ora. Per turni devastanti: dodici ore a 34 gradi, sempre in piedi e con un sola pausa di 30 minuti. Il tutto con la spada di Damocle del licenziamento, se solo un lavoratore osa iscriversi al sindacato.
E' evidente dunque che se sfruttatori simili sono arrivati a schierarsi con la democrazia, è perché i golpisti hanno deciso di non stare dalla loro parte. E quindi, via con le belle parole. Ma, ironia della sorte, questa lettera avrà molto più peso dei manifestanti morti e feriti, della gente in piazza nonostante il coprifuoco, e degli appelli veri e sinceri in nome dello Stato di diritto. Il diritto del business vince ancora.
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