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sabato 7 agosto 2010
A CHI SERVONO I LICENZIAMENTI ?
In Italia non sono noti studi adeguati sulle crisi aziendali che quasi sempre si concludono con licenziamenti che dimagriscono la base lavorativa delle imprese o degli enti. Se questi studi ci fossero
si dimostrerebbe che le ristrutturazioni che hanno causato a volte traumi sociali terribili non conducono quasi mai ad una riduzione dei costi "complessivi" delle imprese. E' vero che parte della manodopera viene espulsa dall'innovazione tecnologica che cancella posti di lavoro ma questa causa è sempre più rara e le motivazioni sono altre. In primo luogo spesso si spostano risorse dalla base al vertice delle imprese. Marchionne, mentre annunzia la necessità di ridurre a livelli
inferiori a quelli contrattuali i salari dei metalmeccanici e nega un modestissimo premio di produzione,
distribuisce ai dirigenti sostanziosi benefict. Nelle telecomunicazioni, nel sistema bancario, nelle aziende quotate in borsa e dirette da amministratori delegati e managers che non coincidono più con la proprietà avvengono sempre più frequentemente operazioni di "dimagrimento" motivate dal ritornello che bisogna ridurre i costi se si vuole sopravvivere e stare nel mercato. Appena realizzati i licenziamenti, i risparmi ottenuti vengono immediatamente assorbiti dal management e dalle alte sfere burocratiche interne.
Quello che in realtà accade è che quasi sempre i costi non diminuiscono anzi spesso aumentano. La voracità dei vertici dirigenziali delle imprese è diventata scandalosa ed oramai sfugge a qualsiasi regola non solo etica ma di buon senso e di ordine. Ne abbiamo avuto un clamoroso esempio durante la crisi del sistema finanziario statunitense in cui, mentre la gente veniva cacciata via dalle banche e dalle assicurazioni dai vigilantes che a malapena consentivano di raccogliere gli oggetti personali dalle scrivanie, i papaveri si liquidano milioni di dollari di gratifiche alla faccia degli azionisti
e senza alcuna vergogna. La proposta di Obama di contenere queste regalie alle aziende che non avevano avuto aiuti federali è stata fischiata da Soros e del branco compatto dei pescicani sostenuti dal Congresso. Insomma
si riducono i costi del personale con i licenziamenti per aumentare i costi delle sfere superiori delle burocrazie aziendali specialmente nelle banche oppure per cedere pezzi di attività ad esterni spesso
in rapporti ambigui ed oscuri con le dirigenze. Nella pubblica amministrazione, in particolare nella sanità o nel comparto delle forze armate, le esternalizzazioni dei servizi a privati, le privatizzazioni di interi comparti, non producono alcuna riduzione di costi e spesso li aumentano. Hanno però un risultato deprecabile costituito dalla crescente rigidità di movimento degli enti pubblici a cominciare dai Comuni. Una volta era possibile che, in caso di grosse crisi sociali, gli enti territoriali
della pubblica amministrazione, intervenissero con proposte di occupazione in impieghi sostitutivi. Ora non è più possibile. La sciagurata moda bipartisan delle privatizzazioni ha immobilizzato gli Enti ed in particolare i Comuni che non sono in grado di intervenire perchè tutti i servizi sono stati appaltati a privati. Non si fanno inoltre quasi più i concorsi che costituivano la tappa post scolastica dei giovani e che davano accesso ordinato e soddisfacente al lavoro.
E' profondamente cambiata la natura delle aziende e della stessa pubblica amministrazione in senso negativo ed asociale. Nelle aziende le posizioni dei dirigenti sono diventate costosissime e sempre più importanti e decisive. Il controllo degli azionisti è inesistente ed in ogni caso questi non hanno alcun potere reale di limitare o mitigare l'ingordigia strabordante dei leaders. Non c'è nulla di più antidemocratico di una società per azioni le cui riunioni annuali sono momenti di spartizione delle oligarchie ai danni della massa degli azionisti.
Quando si parla di costo del lavoro bisognerebbe esaminare la quantità e le dinamiche dei salari, degli stipendi e degli emolumenti. Ci renderemmo conto che la crisi non è mai esistita per le dirigenze che hanno una
sequenza di miglioramenti strabilianti a fronte della stagnazione e delle riduzione effettiva dei salari dei dipendenti. La distanza tra questi ed i loro capi è diventata insopportabile.Non c'è alcuna ragione che possa giustificare il fatto che una persona guadagni quanto mille suoi dipendenti che peraltro sono soggetti alla legge bronzea dei salari applicata duramente da gente che, per collocazione strategica dentro l'impresa, è nelle condizioni di fissarsi la retribuzione e ne approfitta sfacciatamente.
Insomma si pone il problema di una riforma profonda del sistema delle imprese e della regolazione delle dinamiche interne delle dirigenze e dei lavoratori. Gli azionisti dovrebbero contare molto di più ed i consigli di amministrazioni dovrebbero avere poteri assai limitati per quanto riguarda il trattamento dei loro componenti. Si dovrebbero inoltre limitare le esternalizzazioni di servizi che impoveriscono la cultura delle imprese. Le delocalizzazioni dovrebbe essere preventivamente autorizzate e non affidate all'arbitrio dei privati. Non è vero che le regole irrigidiscono e rendono goffa e perdente l'impresa. E' vero invece che la libertà di cui godono attualmente gli esponenti del capitalismo è eccessiva, arriva alla licenza ed alla pirateria, diventa antisociale. Non è detto che le scelte e gli interessi del management siano quelli della impresa, dei loro dipendenti, del paese. La libertà senza regole in chi ha in mano la sorte di comunità intere non è condivisibile.
Il potere della Confindustria deve essere ridimensionato e regolato. Lasseiz faire laissez passer non è andato mai bene e meno che mai nell'era della globalizzazione che reclama regoli forti per tutti se non si vuole devastare la vita di milioni di persone.
Pietro Ancona
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