Il cappio di Pomigliano, i bluff di Marchionne
Nella conversazione con il direttore, Ezio Mauro, il manager della Fiat ha spiegato perché gli investimenti promessi con il progetto Fabbrica Italia non si possono più fare. «In Italia l’auto e’ precipitata in un buco di mercato senza precedenti, un mercato colato a picco, ritornato ai livelli degli anni 60. Abbiamo perso di colpo 40 anni. Il paese – ha spiegato Marchionne – soltanto un anno fa era fallito. Lo avevamo perduto. Solo l’intervento di un attore credibile ha saputo riprendere l’Italia dal baratro in cui era finita e risollevarla. E qualcuno vorrebbe che Fiat si comportasse tranquillamente come quando c’era il sole? O è una imbecillità pensare questo o è una prepotenza, fuori dalla logica».
Incalzato da Mauro sulla responsabilità nazionale di un’azienda che ha ricevuto soldi ha risposto così. «Scusi, se il quadro è quello che le ho fatto, e certamente lo è, si immagina cosa farebbe qualunque imprenditore al mio posto? Cosa farebbe uno straniero, in particolare un americano, un uomo d’azienda con cultura anglosassone? Dovreste rispondervi da soli». E ancora: «In questa situazione drammatica, io non ho parlato di esuberi, non ho proposto chiusure di stabilimenti, non ho mai detto che voglio andar via. Le assicuro che ci vuole una responsabilità molto elevata per fare queste scelte oggi».
Marchionne ha poi detto che la Fiat rimarrà in Italia, compensando le perdite sul mercato italiano ed europeo con i guadagni accumulati sul mercato americano. Ma per farlo, ha detto, c’è bisogno dell’aiuto dello stato italiano: «Mi impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell’Italia». E così, dopo aver menomato i diritti del lavoro perché lo esigeva il mercato, il grande manager con pullover chiede allo stato di assumersi i rischi che nel mercato spetterebbero agli imprenditori.
Piange il telefono (da intonare come la celeberrima canzone di Mimmo Modugno). Piange il telefono della Fornero, abituata alle performance lacrimose, che ha lanciato il suo duro penultimatum all’amministratore delegato della Fiat. “Marchionne lo sento spesso (e cosa vi dite, di grazia), mi ha detto che sarebbe andato negli Stati Uniti (week end lungo si direbbe…). Gli ho dato alcune date per incontrarci, ma il telefono non è ancora squillato”. Povera Fornero! Proprio lei. Che con un alzata di sopracciglio stende i sindacati e lascia sul campo morti e precari. Proprio lei viene snobbata dall’imprenditore che più ha ispirato la versione di Elsa, quella dell’agir pubblico contro gli interessi della maggioranza degli italiani. Povera Fornero, a parte i titoli a nove colonne che le dedicano i giornali, in preda al panico pur di risollevare le fortune del compianto governo dei tecnici, si ritrova ad essere sempre più la caricatura di se stessa. La ministra inesistente, come giustamente l’ha definita Luciano Gallino, in buona compagnia di altri famosi inesistenti, da Passera a Profumo, passando per Ornaghi e Catania. Ministri a due dimensioni, meglio se catodicamente a favore di inquadratura. La dimensione del mercato-dio, alla quale ci si inchina in nome e per conto nostro. E poi la dimensione del proprio ego, l’assunzione impavida e grave della responsabilità di essere i migliori, sempre nostro malgrado. Quelli che ci volevano, quelli che non si capiva perché non fossero stati ancora scoperti, quasi che la politica fosse un palcoscenico di talent show sul quale finire a spinte e raccomandazioni. Sempre per il bene nostro.
Ai ministri di Monti, che delle caratteristiche antropologico-ideologiche precedenti è l’eponimo, da cui la vague chiamata pomposamente del “montismo”, manca la terza dimensione e, per chi sa che il mondo ne ha almeno quattro, sfugge addirittura l’esistenza della quarta. Le altre due dimensioni sono, in primo luogo, quella del valore generale delle istituzioni, delle istituzioni democratiche e repubblicane. Bei tempi quando due ministri della Repubblica, Brodolini e Donat Cattin, un socialista ed un democristiano, amavano ripetere “non sono il ministro del lavoro, sono il ministro dei lavoratori”. Sono gli stessi che costruirono la legge 300/70, altrimenti nota, o famigerata a sentire gli attuali ministri, come Statuto dei lavoratori. Era il tempo della crescita economica ma anche dei diritti. All’epoca l’Italia aveva i salari più alti d’Europa e la Fiat era il primo produttore di auto in Europa. Oggi siamo ai salari da fame e sempre la Fiat, di Marchionne e dei fantasmi degli Agnelli, perde almeno il doppio delle altre case automobilistiche, raggiungendo tristi primati, da negozio ai saldi di fine stagione. Lo stesso Donat Cattin convocava la Fiat con i carabinieri, anche se Fornero potrebbe forse risponderci che per acchiappare Marchionne l’americano ci vorrebbe l’FBI.
La cosa che più mi indigna è questa resipiscenza tardiva, questo risveglio dal “sogno” di Fabbrica Italia, la favoletta che aveva fatto dormire sonni tranquilli anche al pupo Renzi. E invece aveva ragione la Fiom! L’incubo, altro che sogno, è partito con il referendum-ricatto di Pomigliano. Doveva essere unico, irripetibile. Un sacrificio, umano, sull’altare della produttività da riconquistare. Il governo dell’epoca plaudì, molti anche di centrosinistra fecero lo stesso. Poi sono cominciate le discriminazioni, l’estensione del cappio di Pomigliano a tutte le fabbriche, poi le condanne contro l’azione discriminatoria dell’azienda, fino allo svelamento dell’inganno coltivato fin dall’inizio. Fabbrica Italia non è mai esistita, bastava vedere le richieste di fondi europei per consentire la dismissione di rami secchi (proprio come si fece per la metallurgia), che ha visto la netta opposizione della VolksWagen in primis. La produttività non c’è perché non c’è il prodotto. E il governo non c’è poiché non c’è uno straccio di politica industriale. Le uniche leggi fatte sono state quelle che hanno generalizzato il marchionnismo, dall’articolo 8 della legge Tremonti che smonta il contratto nazionale, all’abolizione dell’articolo 18 scritto nella pessima legge sul mercato del lavoro di Fornero.
Insomma, la quarta dimensione mancante è quella del tempo in cui vivono le persone reali. Il tempo della crisi che abita l’esperienza quotidiana. Di questo governo abbiamo sempre detto che non ci convinceva, che stava scavando un solco tra la società e le istituzioni. Oggi, dopo Alcoa, Sulcis, Ilva e Fiat siamo all’impotenza eretta a sistema, ridotti a mettere il sale sulla coda all’impresa multinazionale. Per ritrovare questa dimensione di governo dei processi e non solo di amministrazione dell’esistente, va ricostruito dalle fondamenta il senso e la funzione della rappresentanza. Quel senso che icasticamente raccontavano i “ministri dei lavoratori”.
da Gennaro Migliore
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