di Giorgio Cremaschi (Potere Al Popolo)
Come tanti sanno un provvedimento dettagliato del governo sulle pensioni non c’è, sul documento di bilancio la voce pensioni è vuota, c’è solo lo stanziamento di circa 6,7 miliardi di euro. Pare che entro il 31 ottobre il governo dovrebbe uscire con il dettaglio del suo intervento sul sistema pensionistico. Allora avremo sicuramente delle sorprese, come abbiamo visto sul decreto fiscale, che tuttora Di Maio disconosce per il persistere di forme di scudo penale agli evasori; e come abbiamo visto sul decreto Genova che sana le case abusive di Ischia e lo sversamento di fanghi petroliferi nei campi.
Tuttavia annuncio dopo annuncio, indiscrezione dopo indiscrezione, il quadro fondamentale delle misure si delinea e chiarisce che il governo, al di là delle opposte propagande di chi esalta l’abolizione della legge Fornero e di chi si straccia le vesti per questo, non supera affatto la controriforma delle pensioni del governo Monti, ma solo la ammorbidisce e rallenta per alcuni ben precisi gruppi di lavoratrici e lavoratori.
La legge Fornero ha due capisaldi, la pensione di vecchiaia a 67 anni di età per donne e uomini, quella di anzianità per chi, pur essendo più giovane, abbia accumulato 43 anni di contributi. Per capirci, un operaio che abbia cominciato a lavorare a 16 anni e abbia avuto sempre un rapporto di lavoro, oggi con le legge Fornero può andare in pensione cosiddetta di anzianità a 59 anni di età e per lui non cambierà nulla. Una lavoratrice che tra pause familiari e disoccupazione abbia maturato complessivamente 30 anni di contributi sarà costretta ad andare in pensione a 67 anni di età. Anche per lei non cambierà niente. Così come non cambia niente per chi, soprattutto donne e ora anche migranti, non abbia raccolto almeno 20 anni di contributi.
Tutte e tutti costoro lasceranno integralmente il versato nelle casse dell’INPS e potranno solo chiedere la pensione sociale, 448 euro al mese, a 67 anni se poveri ai sensi dell’Isee. Va detto che la Fornero ha ereditato questa porcata dal governo di Giuliano Amato che la varò nel 1992 di fronte ad una tempesta monetaria che preparava l’euro. La Fornero ha semplicemente inserito quella norma nel balzo da essa imposto all’eta pensionabile. Lo stesso ha fatto con un’altra norma che spesso invece le viene attribuita: il meccanismo di innalzamento automatico dell’età della pensione in proporzione all’incremento della cosiddetta aspettativa di vita: più speri di vivere, più devi lavorare.
Fu Sacconi, ministro del lavoro del governo Berlusconi nel 2009, a stabilire questa norma stupida e feroce che cancella la fatica del lavoro e trasforma i successi della medicina e della società, di cui usufruiscono prima di tutto i più ricchi, in condanna per i poveri. Naturalmente la Lega di Bossi, Maroni e Salvini votò a favore.
Anche questo meccanismo non viene abolito, ma solo bloccato per alcuni anni; poi riprenderà a fare danni, innalzando sia l’età della pensione di vecchiaia sia i contributi necessari per quella di anzianità. Intanto però saranno passate le prossime elezioni.
Il governo dichiara inoltre di voler mantenere la cosiddetta “opzione donna”. Anche questa è una misura già decisa dai governi precedenti, per stemperare gli eccessi di ferocia della legge Fornero. Le lavoratrici con 58 anni di età se dipendenti, 59 se autonome, se avranno maturato 35 anni di contributi potranno andare in pensione a circa 60 anni. Naturalmente con un pesante taglio alla rendita. Anche questo provvedimento micragnoso e sessista viene confermato, presentandolo come un grande cambiamento, ma allora cosa cambia davvero?
Come si sa il governo chiama abolizione della legge Fornero l’istituzione della cosiddetta “quota 100”. Chi ha 62 anni di età e 38 anni di contributi potrà andare in pensione, ma con alcune avvertenze.
La prima è che non c’è in realtà alcuna quota 100: chi ha 60 anni di età e 40 di contributi non andrà in pensione prima, così pure chi ha 63 anni e 37 di contributi. I due requisiti sono entrambi necessari, se uno dei due manca non si va in pensione. Inoltre tornano le famigerate “finestre”; cioè non si va in pensione quando si maturano i requisiti, ma un po’ dopo. Da un minimo di 4-5 mesi per un lavoratore del privato, ad oltre un anno per un insegnante.
Ora sulla base di tutti questi e di altri piccoli trucchi che si stanno elaborando, il governo prevede di far andare in pensione, prima di quando avrebbero dovuto andarci con la Fornero, circa 350.000 persone, che già sono molte meno di coloro interessate ad una vera quota 100. Anche qui c’è la complicità delle opposte propagande: il governo dice che “cambia tutto”, Boeri e PD che lamentano lo scasso dei conti pubblici. La realtà è molto diversa.
Per andare in pensione nel 2019 a 62 anni di età con 38 anni di contributi bisogna essere nati attorno alla metà degli anni 50, essere andati a lavorare attorno ai 24-25 anni e aver mantenuto un impiego stabile fino al 2018. Chi sono costoro? In grandissima parte impiegati delle grandi aziende private e del settore pubblico. Che effettivamente potranno andare prima via dal lavoro… o dovranno?
Sì perché stranamente questo provvedimento coincide largamente con i bisogni delle grandi aziende e della pubblica amministrazione di procedere allo svecchiamento del personale. Via impiegati anziani e costosi, dentro giovani pagati molto meno e, ricordiamolo sempre, nel privato senza articolo 18. Del resto quando fu varata la legge Fornero fu proprio Boeri a lamentare che essa avrebbe “ingessato” il mercato del lavoro. Per questo la Confindustria è concorde, al di là di qualche ipocrisia di facciata.
Quello che il governo sta varando non è l’abolizione della legge Fornero, che resta in tutti i suoi meccanismi più feroci e ingiusti, ma un prepensionamento per alcune categorie di impiegati del sistema pubblico e privato. Naturalmente molti di loro saranno contenti di uscire da posti di lavoro sempre peggiori, ma, ripeto, questo non elimina la controriforma del sistema pensionistico.
Per fare davvero una riforma giusta si dovrebbe abbassare per tutte e tutti, e non solo per alcuni, l’età della pensione. Si dovrebbe garantire una pensione dignitosa ai giovani e ai precari. Si dovrebbe rilanciare il sistema pubblico con adeguata contribuzione, invece che colpirlo con i condoni o con le agevolazioni per le pensioni private, anche sindacali.
Non è vero che il sistema pensionistico pubblico sia al collasso, come affermano mentendo tutti i liberisti, di governo e di opposizione. Al contrario il sistema pubblico è in attivo, tolte le spese di assistenza che dovrebbero riguardare la fiscalità generale, recuperati i mancati contributi dello stato per i suoi dipendenti, recuperata la gigantesca evasione contributiva agevolata nel nome delle “imprese”; e soprattutto messi nel conto i 50-60 miliardi annui di tasse che versano i pensionati.
Se tutti questi conti venissero onestamente fatti, verrebbe smentita la propaganda liberista su un sistema pensionistico pubblico insostenibile. E verrebbe fuori invece la brutale realtà di governi che hanno sempre usato le pensioni come bancomat pronta cassa.
Tutto l’impianto della legge Fornero rimane, come quello di tutte la controriforme precedenti, a partire da quel sistema contributivo introdotto dalla legge Dini, che, nell’epoca della precarizzazione del lavoro, ha distrutto la solidarietà tra generazioni nel sistema pubblico.
Il governo gialloverde in realtà copia ciò che fece l’ultimo governo Prodi nel 2007. Allora era in vigore il cosiddetto “scalone Maroni”. Un innalzamento dell’età della pensione attuato dal governo di destra precedente, a cui il ministro leghista del lavoro di allora aveva dato il sui nome. Prodi aveva preso in campagna elettorale il solenne impegno di abolire lo scalone Maroni; e alla fine lo mantenne, mandando in pensione prima alcune classi di età, allora si parlava di quota 95. Ma senza toccare nulla della struttura del sistema pensionistico, anzi facendo pagare alla maggioranza dei lavoratori il miglioramento per alcuni.
Salvini e Di Maio oggi fanno come Prodi allora: mandano in pensione prima una piccola minoranza di lavoratori e accettano e mantengono che la grande maggioranza di essi vada in quiescenza sempre più tardi.
La lotta per un sistema pensionistico pubblico giusto e umano è ancora tutta da fare.
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