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sabato 16 luglio 2016

Una nuova faccia della povertà, le famiglie giovani



Le famiglie in povertà assoluta in Italia sono un milione 582mila. Si tratta di oltre 4,5 milioni di persone: il 7,6% dei residenti in Italia. E’ quanto risulta dall’ultima indagine dell’Istat, che fotografa il dato più alto dal 2005.  L’incidenza della povertà assoluta rimane sostanzialmente stabile se la si misura in termini di framiglie, mentre aumenta se si contano gli individui.  Questo perché le famiglie più vulnerabili sono quelle giovani, con due figli o più, oppore tra le famiglie straniere numerose. Il dato nuovo si registra poi nell’aumento più marcato della povertà a Nord e nelle grandi città, dove si concentrano proprio questi soggetti più vulnerabili.

“Da un lato, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, la povertà aumenta malgrado l’economia in leggera ripresa. Evidentemente la cresita del Pil è troppo lenta per assorbire la povertà e aumentare soprattutto l’occupazione. La tendenza è confermata negli ultimi dieci anni, ma ci sono gruppi familiari per i quali il rischio aumenta. Si tratta di famiglie di giovani e famiglie straniere numerose, che subiscono di più la recessione”.

In questi ultimi mesi il governo ha preso dei provvedimenti contro la povertà, ma secondo questi dati non sembrano esserci stati dei miglioramenti.

“La misura principale è il bonus da 80 euro che riguarda soprattutto classi medio-basse e non le famiglie più povere. Proprio in questi giorni è in discussione la legge delega di contasto alle povertà è in discussione in aula. In realtà quindi il governo si sta muovendo solo ora nei confronto delle famiglie poveri. Nei prossimi mesi, a livello nazionale, dovrebbe entrare in vigore una prima misura quasi universale contro la povertà. Quasi universale perché riguarda solo famiglie con figlie o con disabili. E’ una novità importante. Lo stanziamento monetario ancora abbastanza limitato ma per la prima volta in Italia ci si sta muovendo in modo sistematico in collaborazione con gli enti locali per costruire una misura di reddito minimo”.

Rimanendo sui dati, colpisce l’incidenza in particolare al nord, 
in particolare con le famiglie di immigrati.


“Con la crisi, la povertà è cambiata, si è diffusa in tutto territorio nazionale. Prima le famiglie povere erano le famiglie numerose concentrate nel Sud. Ora il rischio è aumentato più al Nord e riguarda soprattutto le famiglie di immigrati, concentrate nelle città del Nord, e le famiglie numerose. Oggi in Italia un minore su dieci – che è tantissimo – è in povertà assoluta, mentre è stabile invece per chi ha più di 60 anni. Questo vuol dire che in dieci anni solamente la povertà in Italia ha totalmente cambiato faccia”.

LEGGI ANCHE 

http://cipiri00.blogspot.it/2016/07/ocse-inps-e-istat-riforme-inefficaci-e.html

SERVE UN PARACADUTE SOCIALE 

http://cipiri00.blogspot.it/2016/07/serve-un-paracadute-sociale-reddito-di.html


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lunedì 11 luglio 2016

MDD: Presidio Davanti a Palazzo Marino Giovedì 14 luglio dalle ore 15:00 alle ore 19:00




"Nulla su di Noi e senza di Noi"
Giovedì 14-7 dalle ore 15:00 alle ore 19:00
Presidio Davanti a Palazzo Marino ( comune di Milano)
Uniti a tutte le Fragilità e Criticità del mondo del lavoro:
Disoccupati di tutte le età, Lavoratori precoci quota 41,
Opzione Donna, Mobilitati, Esodati.
Per Modificare la legge Fornero 
Riformulare i corsi di Formazione Lavoro
Tessera ATM estesa con agevolazioni
Calcolo ISE individuale
Reddito di Esistenza
Abbiamo versato i Contributi e non Abbiamo
67 anni di età per la Pensione
Siamo Vivi Adesso.


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Se sei disoccupato o se conosci dei disoccupati contattaci. 
Ci riuniamo periodicamente in Camera del Lavoro Milano 
- Corso di Porta Vittoria 43 - Sala Fiom 2° piano. 
.
SE VUOI ESSERE AGGIORNATO
SULLE NUOVE INIZIATIVE
MDD
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domenica 10 luglio 2016

Cosa insegna la lotta alla Marcegaglia


Ce l’abbiamo fatta! L’orgoglio operaio ha piegato il padrone d’Europa!”. È l’affermazione di gioia e di soddisfazione dei 7 operai della Marcegaglia, che hanno portato vittoriosamente a termine la loro battaglia contro l’azienda di Emma Marcegaglia, dal 2013 dell’associazione degli industriali europei. Una lotta vinta non solo per loro.

La lotta di Alfredo, Cristian, Franco, Gianni, Massimiliano, Roberto e Sergio ha avuto inizio all’indomani di un accordo separato che Fim e Uilm hanno firmato con l’azienda, che sancì la chiusura dello stabilimento Marcegaglia di Milano e il suo trasferimento in Piemonte, a Pozzolo Formigaro, oltre 100 chilometri di distanza da Milano. Nonostante la presenza di altri due stabilimenti più vicini, (uno in provincia di Bergamo ed uno in provincia di Lecco), Marcegaglia ha provato a imporre il trasferimento a Pozzolo Formigaro.

Contro questa arroganza padronale, quei sette operai hanno portato avanti una lotta durissima, durata in tutto due anni e mezzo, durante i quali ci sono stati presidi, giorni drammatici sul tetto dello stabilimento, incatenamenti all’ingresso dell’azienda, occupazione degli uffici, scioperi, presidi in prefettura e, in tutto questo tempo, con salario ridotto a causa della lunga cassa integrazione. “Uomini in carne e ossa”, come Gramsci definì gli operai Fiat in sciopero per un mese, che “sapevano di lottare e resistere non solo per sé”. Una consapevolezza che è emersa chiaramente dialogando più volte (per quanto mi riguarda) con Massimiliano Murgo (Rsu Fiom), in momenti diversi della loro lunga lotta. Ma quella consapevolezza è venuta fuori anche dalla pratica di lotta e dai risultati ottenuti.

Sette operai hanno sfidato l’arroganza del rappresentante del padronato europeo e hanno ottenuto un accordo che, seppure concretizza un risultato parziale (tre posti di lavoro e quattro incentivi per non opposizione al licenziamento), risulta comunque di portata significativa. E a chi dovesse affermare che non si può parlare di vittoria, a chi i risultati parziali paiono sconfitte, bisognerebbe rispondere che non si può chiedere di più a sette operai che sfidano il rappresentante del capitalismo europeo, consapevoli della portata esemplare della loro lotta e, al tempo stesso, stretti come tanti nella morsa delle necessità del vivere quotidiano. Parlando della sconfitta degli operai Fiat di Torino nel 1921 (e qua siamo di fronte a un risultato apprezzabile), Gramsci ricordava che “Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne conosciamo i bisogni” dobbiamo avere della situazione concreta “una concezione realistica”, che “Il nostro ottimismo rivoluzionario” ha bisogno di essere “sostanziato da questa visione crudamente pessimistica della realtà umana, con cui inesorabilmente bisogna fare i conti”.

Qualche settimana fa, incontrando Massimiliano Murgo e i protagonisti di altre importanti lotte lontane da Milano, abbiamo raccontato la lotta in Marcegaglia e quelle di altre vertenze, vittoriose o meno, drammatiche, fatte anch’esse di lunghe occupazioni, presidi, esistenze compromesse, difficoltà quotidiane. A loro modo, ognuna di quelle esperienze di lotta può essere considerata esemplare: lo è stata, ad esempio, quella alla Thales, multinazionale nel settore aerospaziale e difesa, vittoriosa dopo ben 53 giorni di sciopero, occupazione dello stabilimento e presidi; lo è stata anche quella alla Golden Lady, portata avanti per mesi in maniera tenace dai lavoratori, anche qui con occupazioni e presidi permanenti, ma comunque sconfitta.

I risultati di una lotta non sono mai scontati; non esistono ricette belle e pronte che, se seguite alla lettera, garantiscono una vittoria. Ogni lotta ha una storia a sé, una specificità e per essere portata avanti occorre tenere in considerazione molteplici fattori, che cambiano nel corso della lotta. Lo hanno scritto i sette operai Marcegaglia dopo l’accordo: prima di questa vicenda la situazione in Marcegaglia era che “chi non accetta le condizioni dell’azienda finisce male! Tutta la storia sindacale del gruppo è stata questa e non ha mai trovato alcuna resistenza efficace”. Questa volta è andata diversamente ed è un risultato che non può essere ignorato, specialmente se si tiene conto della realtà presente, da cui non si può prescindere.

E la realtà presente racconta di una frammentazione sociale risultato di decenni di riorganizzazione capitalistica. Una frammentazione che investe ogni campo del vivere sociale, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Una realtà dove è sempre più difficile riuscire a dare organizzazione al conflitto, anche solo dentro le fabbriche piene di lavoratori precari e ricattati, di dipendenti di imprese a cui vengono appaltati parti del processo produttivo, di lavoratori messi in concorrenza tra di loro. Eppure, è dentro questa realtà sociale estremamente frammentata che la lotta di sette lavoratori è diventata una lotta che è riuscita a fare collaborare diverse sigle sindacali, a coinvolgere iscritti e non iscritti al sindacato, che ha mostrato l’assurdità dello scontro generazionale (che dopo il Brexit sappiamo quanto influenza anche certa sinistra). E, soprattutto, a questa lotta è stata data una dimensione che è andata oltre la fabbrica. E forse è proprio quest’ultimo il risultato più importante, sul piano politico.


La sinistra di classe farebbe bene a uscire dalla dimensione elettoralista nella quale si è persa, per tornare nei luoghi di lavoro. Esperienze di lotta come quella alla Marcegaglia, alla Thales, alla Golden Lady, alla Almaviva – e si potrebbe continuare – andrebbero seriamente indagate per essere capite e per sviluppare una linea politica e sindacale che sappia svilupparsi dentro la realtà sociale. È così che si può dare concretezza a un’analisi e a una prassi politica e sindacale per mettere insieme e consolidare nuovi blocchi sociali, capaci di essere protagonisti di lotte immediate e di un progetto politico di trasformazione sociale.



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Bangladesh : Tessile Italiano




Ong: “Salari bassi e ambienti rischiosi: lavoratori sfruttati”

Il Paese è il secondo più grande produttore di abiti pronti del mondo e il volume delle esportazioni verso la Penisola è triplicato in dieci anni. Ma le associazioni segnalano stipendi miseri, straordinari obbligatori, strutture pericolanti: crolli e incendi hanno fatto centinaia di morti, come nel caso del Rana Plaza

Un Paese strategico per il tessile italiano, che vale quasi 1,2 miliardi all’anno per le nostre aziende. Ma al tempo stesso, un porto franco per i diritti umani, come segnalano le associazioni attive sul territorio, che raccontano le precarie condizioni in cui lavorano gli operai delle fabbriche, spesso fornitrici di marchi italiani. L’attentato di Dacca, dove sono state uccise 20 persone tra cui nove italiani e diversi imprenditori del tessile, ha riacceso le luci sul Bangladesh. Un Paese stretto tra il boom del settore dell’abbigliamento e le tragedie del lavoro: è ancora viva la ferita del Rana Plaza, lo stabilimento tessile dove nel 2013 persero la vita 1.134 dipendenti, rimasti schiacciati dal crollo della struttura. “I marchi occidentali, committenti delle fabbriche tessili bengalesi, sono corresponsabili delle condizioni di sfruttamento in cui versano i dipendenti – spiega Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti – Gli operai lavorano 12-14 ore al giorno, fanno straordinari obbligatori e salari bassissimi: uno stipendio dignitoso equivale a 337 euro, mentre il salario minimo si ferma a 54 euro. E gli ambienti sono pericolosi: chi va a lavorare in una fabbrica tessile, rischia di non tornare a casa”.

Il Paese è il secondo più grande produttore di abiti pronti del mondo dopo la Cina: nel 2015 ha esportato vestiti per un valore di oltre 25 miliardi di dollari, secondo Bangladesh manufactures and exporters association, e il settore ha dato lavoro a circa 5 milioni di persone. Dal Bangladesh, segnala Coldiretti, l’Italia ha importato nel 2015 prodotti tessili per 1,18 miliardi di euro: “Le importazioni di abiti sono aumentate del 248% (tre volte e mezzo) in valore negli ultimi dieci anni con un ulteriore incremento del 5% nel primo trimestre del 2016, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno”. Nel periodo gennaio-febbraio 2016, aggiunge l’agenzia Ice, il valore delle importazioni dal Bangladesh all’Italia ammontava a 274 milioni: quasi il 99% è rappresentato da prodotti tessili, articoli di abbigliamento e articoli di pelle. Un dato in crescita del 13% rispetto allo stesso bimestre del 2015.

Resta da capire quale sia il prezzo del successo dell’abbigliamento bengalese. Il 24 aprile 2013, la fabbrica tessile Rana Plaza è crollata su stessa, uccidendo 1.134 operai che lavoravano per diversi marchi occidentali. Nel gennaio 2014, l’Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia delle Nazioni Unite, ha istituito il Rana Plaza donors trust fund, un fondo per risarcire le vittime della strage. I versamenti potevano essere effettuati da chiunque ed erano su base volontaria, ma il mondo dell’associazionismo ha chiesto a gran voce che partecipassero i grandi brand della moda committenti del Rana Plaza. Tra questi c’era l’italiana Benetton, che ha contribuito solo ad aprile 2015. Il brand di Treviso ha sborsato 1,1 milioni, che non corrispondono neanche a mille dollari per ogni operaio morto. Non a caso, la Campagna Abiti Puliti ha sempre chiesto che l’azienda pagasse almeno 5 milioni di dollari. Intanto, al Rana Plaza donors trust fund hanno contribuito anche H&M, Primark, Mango, Auchan.

Prima del Rana Plaza, il Bangladesh era stato teatro di altre tragedie del lavoro. Nel 2012, la fabbrica Tazreen Fashion ha preso fuoco: nell’incendio sono morte 113 persone. Tra i committenti, c’erano Walmart ed El Corte Ingles e, secondo la Campagna Abiti Puliti, anche l’italiana Piazza Italia, che da parte sua ha negato di avere mai lavorato con Tazreen. Sette anni prima, invece, era crollato lo stabilimento Spectrum, provocando il decesso di 74 operai: la fabbrica lavorava per conto di vari marchi occidentali, tra i quali Zara e Carrefour.


Ma Benetton non è l’unico marchio tessile occidentale a finire nel mirino delle associazioni per le condizioni di lavoro in Bangladesh. Nell’aprile 2016, infatti, è uscito un rapporto che accusa H&M di non rispettare gli impegni presi per rendere sicure le fabbriche dei suoi fornitori. Dopo il crollo del rana Plaza, pur non essendo tra i committenti, anche la società svedese aveva firmato l’Accordo per la prevenzione degli incendi e la sicurezza degli edifici in Bangladesh. Tuttavia, Campagna Abiti Puliti, International Labor Rights Forum e United Students Against Sweatshops hanno condotto un’analisi sulle misure correttive messe in campo dall’azienda in 32 fabbriche fornitrici di H&M: il risultato mostra come “ad oggi la maggior parte di queste siano ancora sprovviste di uscite di sicurezza adeguate”. In particolare, le associazioni ricordano un incendio divampato lo scorso febbraio nella fabbrica Matrix Sweaters Ltd, fornitrice di H&M: “Centinaia di lavoratori hanno rischiato di rimanere bloccati dentro la fabbrica in fiamme”. Da parte sua, la società spiega di seguire da vicino il piano di interventi di messa in sicurezza e di “riscontrare buoni progressi”.

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http://cipiri5.blogspot.it/2016/07/made-in-italy-della-moda-in-bangladesh.html


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martedì 5 luglio 2016

Sciopero al Contrario in Gratosoglio: cittadini al lavoro




 I ragazzi del Quartiere Gratosoglio ci insegnano un modo nuovo per Manifestare il loro disagio della DISOCCUPAZIONE , SCIOPERANDO si ma al CONTRARIO , LAVORANDO mettendosi a disposizione come volontari ed  hanno riverniciato alcune colonne deteriorate
 del loro quartiere, autofinanziando l'intervento.





Lo "sciopero al contrario" dei ragazzi del centro autogestito Gta di Gratosoglio ha portato nella giornata di domenica 3 luglio all'intervento "dal basso" e in autofinanziamento per rivernciare alcune colonnine di cemento-amianto deteriorate. Attrezzati con kit completo di tute e mascherine, i ragazzi sono intervenuti al posto degli enti competenti, mettendosi a disposizione come volontari e nel frattempo portando avanti una 'Lista-Disoccupati', cercando di creare un punto di incontro e un passaparola fra i cittadini per cerco/offro lavoro, lavori generici, per far incontrare le esigenze dei cittadini del quartiere in modo diretto.

Aderite al GRUPPO 



lunedì 4 luglio 2016

QUANTO COSTERÀ' RIMBORSARE la PENSIONE ANTICIPATA



PENSIONI ANTICIPATE
ECCO
Quanto COSTERÀ' RIMBORSARE il PRESTITO a RATE


Una rata di 53 euro al mese in caso di anticipo di solo un anno rispetto all'età di vecchiaia con una 

pensione netta di 800 euro. È uno degli esempi elaborati sulla flessibilità in uscita allo studio del 

Governo illustrata ieri dopo il confronto tra Esecutivo e sindacati. Ecco gli esempi elaborati dal 

sindacato sulla base di un tasso di interesse fisso al 3% 
e una restituzione in 20 anni con 13 mensilità l'anno:

PRESTITO SU PENSIONE LORDA 900 EURO INTERESSE 3%
Anticipo un anno
mensile annua
Pensione spettante netta 800 euro 10.400
Importo da restituire 10.400 euro
Rata in 20 anni 53,24 euro 692,12
Perc su trattamento lordo 5,9% 5,9%
---------------------------------------------------------
Anticipo due anni
Pensione spettante netta 800 euro 10.400
Importo da restituire 20.800 euro
Rata in 20 anni 106,48 1.384,24
Perc su trattamento lordo 11,8% 11,8%
------------------------------------------------------------
Anticipo tre anni
Pensione spettante netta 800 euro 10.400
Importo da restituire 31.200 euro
Rata in 20 anni 159,71 2.076,23
Perc su trattamento lordo 17,7%
============================================================
PRESTITO SU PENSIONE LORDA 1.200 EURO INTERESSE 3%
Anticipo un anno
mensile annua
Pensione spettante netta 1.000 euro 13.000
Importo da restituire 13.000 euro
Rata in 20 anni 66,55 865,15
Perc su trattamento lordo 5,5% 5,5%
-------------------------------------------------------------
Anticipo due anni
Pensione spettante netta 1.000 euro 13.000
Importo da restituire 26.000 euro
Rata in 20 anni 133,09 1.730,17
Perc su trattamento lordo 11,1% 11,1%
-------------------------------------------------------------
Anticipo tre anni
Pensione spettante netta 1.000 euro 13.000
Importo da restituire 39.000 euro
Rata in 20 anni 199,64 2.595,32
Perc su trattamento lordo 16,6%% 16,6%%
=============================================================
PRESTITO SU PENSIONE LORDA 3.600 EURO INTERESSE 3%
Anticipo un anno
mensile annua
Pensione spettante netta 2.500 euro 32.500 euro
Importo da restituire 32.500
Rata in 20 anni 166,37 2.162,81
Perc su trattamento lordo 4,6% 4,6%
--------------------------------------------------------------
Anticipo due anni
Pensione spettante netta 2.500 euro 32.500 euro
Importo da restituire 65.000
Rata in 20 anni 332,74 4.325,62
Perc su trattamento lordo 9,2% 9,2%
--------------------------------------------------------------
Anticipo tre anni
Pensione spettante netta 2.500 euro 32.500 euro
Importo da restituire 97.500
Rata in 20 anni 499,10 6.488,30
Perc su trattamento lordo 13,9 13,9%.

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Made in Italy della Moda in Bangladesh


Iqbal Masih, il bambino pakistano 
che denunciò la condizione di sfruttamento del lavoro minorile

Ma che ci facevano tanti italiani imprenditori, o lavoratori del settore tessile in Bangladesh? L’orribile attentato di pochi giorni fa – orribile al pari di tutti gli altri attentati dell’Isis di questi mesi, in qualsiasi parte del mondo, e quale sia la nazionalità delle vittime – ha colpito diversi cittadini italiani, imprenditori o lavoratori del settore tessile. Non un caso isolato, ma una frequentazione sempre maggiore quella del sud est asiatico per le imprese tessili della penisola, che getta ormai un’ombra sul made in Italy, divenuto a tutti gli effetti marchio di sfruttamento planetario.

Nell’imbarazzo dei media e della stampa, che si sono tenuti ben lontani dall’approfondire questa questione, viene fuori ancora una volta quel legame tra le peggiori condizioni di lavoro, bassi salari, lavoro minorile, orari massacranti e un settore che è insieme all’agroalimentare il fiore all’occhiello della produzione nazionale, che vanta una forte tradizione imprenditoriale, di qualità e riconoscimento mondiale. Non è un mistero che da tempo la delocalizzazione al di fuori dei confini nazionali abbia comportato una crisi del settore e delle piccole aziende italiane delle filiere dei grandi marchi, che oggi preferiscono appaltare i propri lavori a veri e propri centri di sfruttamento, in cambio di maggiore profitto. Il Bangladesh è uno dei centri privilegiati di questo meccanismo.

«Nel periodo gennaio-febbraio 2016 – ha scritto un dispaccio dell’AdnKronos – ammontava a 274 mln il valore delle importazioni dal Bangladesh all’Italia. Oltre 271 mln di questi, quasi il 99%, è rappresentato da prodotti tessili, articoli di abbigliamento e articoli di pelle. Per altro, secondo gli ultimi dati disponibili dell’agenzia Ice, in crescita del 13% rispetto allo stesso bimestre del 2015. Non è un caso, infatti, che più della metà degli italiani morti nell’assalto terroristico di ieri sera a Dacca, in Bangladesh, lavorasse nel tessile. La Lombardia è una delle regioni dove pesa di più, in termini di ricchezza prodotta, l’interscambio commerciale con il Bangladesh, rappresentando circa il 15% del totale nazionale. Secondo gli ultimi dati disponibili della Camera di commercio di Milano, nella prima parte del 2015 gli scambi valevano 132 milioni di euro, di cui 80 di import e 52 di export, un valore in crescita del 94% rispetto a 5 anni fa, 64 milioni di euro in più. Le importazioni, che riguardano per il 97,3% prodotti tessili, hanno vissuto un boom lo scorso anno e sono salite del 30% con punte del +496% a Cremona e del +264% a Pavia.»

Qualcuno ricorderà la tragedia a Dacca nel 2013 dove oltre 1100 operai, tra cui donne e bambini morirono nel crollo di una fabbrica. Allora un’importante catena di abbigliamento italiana risultò coinvolta, in quanto appaltatrice di decine di migliaia di capi, inchiodata dalle foto del crollo e dalle etichette ben evidenti, nonostante un tentativo inizialedi negare ogni coinvolgimento.

Non vi è alcun legame e nessuna giustificazione rispetto all’attentato dell’Isis sia chiaro, ma non si parli di filantropia, o passione per i viaggi. Alcune stime economiche hanno verificato che sui capi di abbigliamento prodotti tramite subappalti nel sud est asiatico le grandi marche riescano a ricavare un profitto di oltre venti volte il costo pagato alla fabbrica che esegue il lavoro. Una polo ad esempio, venduta in Italia a 80 euro ne costa appena 4, 5. Di questi una parte misera finisce ai lavoratori, pagati meno di 2 euro al giorno, nonostante le grandi rivendicazioni delle organizzazioni sindacali e operaie di quei paesi, sempre più coscienti della condizione di sfruttamento.

Per capire cosa sta accadendo in Italia basta farsi un giro nei distretti tessili di un tempo oggi ridotti a un cumulo di macerie o rilevati da aziende che usano manodopera straniera costituendo una sorta di zone economiche speciali (Prato), tollerate dallo stato, in cui le condizioni di lavoro del sud est asiatico sono di fatto importate in Italia.

La particolarità del tessile si evince da un dato che lo differenzia da altri settori industriali. Mentre le aziende italiane di meccanica, automobili, farmaceutica ecc, producono principalmente per il mercato locale , «in molti comparti del Made in Italy, invece , scrive l’Istat nel suo rapporto annuale nel 2014 – quote rilevanti della produzione realizzata all’estero sono riesportate in Italia, in particolare nei settori tessile e abbigliamento (58,2%)…» Tradotto si delocalizza all’estero una parte di semilavorati per poi apporre il marchio in Italia: il prodotto resta “made in Italy” ma la maggior parte del lavoro è svolta fuori dall’Italia, per consentire maggiori guadagni alle grandi imprese. Le piccole falliscono, o si convertono in una sorta di agenti intermedi che fanno anche loro questo tipo di lavoro, per conto di grandi gruppi, che così mascherano le loro responsabilità adducendo rapporti di terzi intermediari e la loro non diretta responsabilità.

Le responsabilità delle aziende italiane, dell’elitè della moda, e del made in Italy SANNO che  in Bangladesh oggi ci sono migliaia di operai sottopagati che lavorano in condizioni misere. Migliaia di Iqbal Masih, il bambino pakistano che denunciò 
la condizione di sfruttamento del lavoro minorile. 


Il 24 aprile 2013 il Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, un sub-distretto nella Grande Area di Dacca, capitale del Bangladesh.

Le operazioni di soccorso e ricerca si sono concluse il 13 maggio con 1.129 vittime. 
Circa 2.515 feriti furono estratti vivi dal palazzo.

È considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia, così come il più letale cedimento strutturale accidentale nella storia umana moderna.

L'edificio conteneva alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi altri negozi. Nel momento in cui sono state notate delle crepe sull'edificio, i negozi e la banca ai piani inferiori sono stati chiusi, mentre l'avviso di evitare di utilizzare l'edificio è stato ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili. Ai lavoratori fu infatti ordinato di tornare il giorno successivo, giorno in cui l'edificio ha ceduto, collassando durante le ore di punta della mattina.

LEGGI TUTTO SULLA STRAGE IN 
Bangladesh

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