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mercoledì 24 giugno 2009

l'Eni si ferma per otto ore

l'Eni si ferma per otto ore

Enzo Mangini

Per la prima volta, tutti i comparti della multinazionale italiana scioperano contro la politica aziendale del management guidato da Paolo Scaroni. Contestano la dismissione delle attività industriali in Italia, a fronte della sempre cresce e spesso opaca internazionalizzazione

Precedenti per lo sciopero di domani non ce ne sono. L’Eni, anzi, è sempre stata caratterizzata per un bassissimo tasso di conflittualità sindacale, grazie alle tutele e a una politica molto morbida da parte dell’azienda verso i propri dipendenti. Le cose sono cambiate, e molto, negli ultimi anni. Un malessere crescente si è diffuso in tutti i comparti del gruppo del cane a sei zampe, che continua a macinare utili e a tagliare posti di lavoro in Italia. Per questo, domani, si fermeranno tutti i lavoratori del gruppo e parteciperanno allo sciopero del settore chimico, indetto da Filcem-Cgil, Femca-Cisl e Uilcem-Uil. I sindacati chiedono al governo e alle aziende del settore chimico e petrolifero di mantenere le promesse fatte a più riprese e di non usare la crisi come un alibi per portare avanti strategie industriali in realtà già da anni nei cassetti delle scrivanie degli amministratori delegati. In Italia, il settore pesa per 240 mila lavoratori, ed è un settore che, schiacciato dalle criticità ambientali di molte lavorazioni, avrebbe bisogno di forti investimenti per ripulirsi e guardare al futuro. Le aziende, a partire dall’Eni, hanno invece scelto la scorciatoia degli utili a breve termine, delle dismissioni e dello spostamento all’estero. Nel caso del cane a sei zampe, poi, le dismissioni riguardano anche quei settori che sono stati considerati fino a ieri il core business, la ragion d’essere di una creatura che ormai non è se non la pallida imitazione di ciò che aveva pensato Enrico Mattei.
«Per noi è chiaro che c’è una strategia di deindustrializzazione dell’Italia – dice Stefano Fossati, della divisione Exploration and production – L’Eni punta sulla chiusura di molti siti industriali, sulla sempre più alta finanziarizzazione delle proprie attività e sullo spostamento dei capitali all’estero». L’EP, finora, era rimasta relativamente al sicuro dai tagli compiuto da Scaroni e soci negli ultimi anni. Ora, invece, vengono a galla piani che preoccupano tutti. L’Eni, per esempio, sta studiando come liberarsi di alcuni campi e siti di produzione, tra cui Ortona, in Abruzzo, e Crotone, in Calabria. L’escamotage è la creazione di tre società in cui far confluire gli assets da dismettere e poi di vendere queste società al migliore offerente, ammesso che ce ne sia qualcuno. «A differenza di quello che è successo in altri casi simili – spiega Fossati – In questo caso l’Eni vuole far confluire nelle nuove società anche i lavoratori, circa 170, che quindi uscirebbero dal sistema Eni senza alcuna garanzia per il proprio futuro». Per contestare, l’EP ha già convocato altre due giornate di sciopero, il 2 e il 3 luglio prossimi e i lavoratori si preparano ad arrivare alla «produzione zero», cioè alla chiusura delle valvole dei pozzi dei campi di produzione. Un’altra vicenda esemplare è quella della raffineria di Livorno, che Scaroni, non molto tempo fa, aveva indicato come uno dei futuri poli di eccellenza del gruppo nel settore degli agrocarburanti. Tutto svanito e dimenticato, con il rischio che mille lavoratori tra dipendenti diretti e quelli dell’indotto si trovino senza più nulla.
«Scioperiamo per indurre l’Eni a invertire questo percorso – aggiunge Claudio Avvisati, delegato all’Eni della Filcem-Cgil di Roma – e per chiedere al governo di intervenire con l’impegno che la gravità della situazione richiede. Ci aspettiamo un’adesione alta allo sciopero, tanto che nelle cinque raffinerie Eni sono iniziate le procedure per raffreddare gli impianti e arrivare al fermo della produzione».
Per domani sono previsti tre presidi di protesta: uno a Milano, davanti la sede della Federchimica, e due a Roma, il primo a Palazzo Chigi e il secondo a piazza Enrico Mattei, dove c’è il quartier generale romano della multinazionale petrolifera, ancora italiana più per convenienza politica e mediatica che per convinzione e strategia.

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