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venerdì 3 aprile 2020

Non Conviene Uscire dall’Euro

Non Conviene Uscire dall’euro



Svalutazione della moneta, 
perdita di valore di stipendi e pensioni, fallimenti bancari e code al Bancomat. 
Tornare a una valuta nazionale 
sarebbe una catastrofe 
e deve essere chiaro a tutti.


Sembra impossibile, ma con tutti i problemi che l’Italia dovrebbe affrontare seriamente c’è ancora chi parla di uscire dall’euro. Tocca quindi armarsi di pazienza e spiegare perché tornare alla lira o a un’altra qualsivoglia valuta nazionale sarebbe come giocare alla roulette russa.
Con il caricatore pieno, però.

Non Conviene Uscire dall’euro

Per chi ha le idee confuse o ha semplicemente nostalgia della Montessori sulle banconote da mille lire, si consiglia la lettura di “Cosa succede se usciamo dall’euro? Quanto costerà e chi ne pagherà il prezzo” a cura di Carlo Stagnaro, libro che sarà presentato venerdì 21 settembre alle ore 16.30 al teatro Franco Parenti a Milano. Capitolo dopo capitolo, economisti e giuristi spiegano le modalità e le conseguenze di una Italexit da diversi punti di vista, offrendo una panoramica semplice quanto lapidaria: forse prima di adottare l’euro e farlo valere 1936,27 lire dovevamo pensarci meglio, ma ora non si torna indietro, pena una sicura catastrofe economica e sociale.

Racconta l’economista Paolo Manasse, innanzitutto, che i costi da pagare per l’Italia sarebbero tanto più alti quanto più brusca l’uscita dalla moneta unica. Nessuno ha mai chiaramente delucidato in che modo questa uscita dovrebbe avvenire. Il fronte no-euro aveva inizialmente proposto un referendum consultivo, che comunque non avrebbe valore vincolante per i trattati internazionali, i quali non prevedono una separazione dall’euro, bensì il divorzio dall’Unione Europea, che come oltremanica stanno sperimentando, non è cosa per nulla rapida e indolore.

Gli effetti ricadrebbero sull’intero Paese, ma manco a dirsi, in misura maggiore sui cittadini a basso reddito, i pensionati, i lavoratori dipendenti, su chi non ha modo
di ottenere forme di indicizzazione all’inflazione

L’Italexit è infatti giuridicamente (quasi) impossibile. Il recesso dall’Ue è ammesso dall’articolo 50 del Tue, ma comporta complessità e lungaggini incompatibili con la situazione di crisi in cui si troverebbe il Paese all’indomani di una scelta di tale portata.

Hard o soft che sia, l’uscita causerebbe in ogni caso una svalutazione della nuova (o vecchia) moneta del 20-30%. Consumatori e imprese vedrebbero un incremento dei prezzi dei beni importati, mentre i vantaggi di cui godrebbe l’export sarebbero transitori e limitati. L’Italia, già Cenerentola d’Europa, si ritroverebbe ulteriormente impoverita, isolata e non più credibile sui mercati esteri. Come ci ha insegnato la Grecia, la perdita di credibilità agli occhi degli investitori esteri segna l’inizio della fine. Lo spiega bene Sandro Brusco: “Le chiacchiere a vanvera del politico sovranista, del boiardo e dell’accademico di seconda fila le paghiamo tutti noi, mediante maggiori spese per interessi”.

Di fronte alla decisione di uscire dall’euro, nessuno si fiderebbe a investire nel debito pubblico italiano: questo comporterebbe a un aumento degli interessi sui titoli di stato, quindi l’aumento dello spread e il circolo vizioso è servito, dritti verso il default. Gli effetti ricadrebbero sull’intero Paese, ma manco a dirsi, in misura maggiore sui cittadini a basso reddito, i pensionati, i lavoratori dipendenti, su chi non ha modo di ottenere forme di indicizzazione all’inflazione. I fautori del ritorno alla lira godrebbero di informazioni privilegiate e date in anticipo, grazie alla quali si potrebbero riparare dal cataclisma messo in atto. I comuni mortali si ritroverebbero invece a dover pagare invece una vera e propria patrimoniale sui risparmi e un incremento delle imposte sul loro reddito a causa della perdita del potere d’acquisto degli stipendi e delle pensioni.

Il ritorno alla sovranità monetaria ci libererebbe dai tanto odiati vincoli di bilancio e dall’austerità, ma il rapporto debito/Pil finirebbe per aumentare, nonostante l’iniziale riduzione dovuta alla ridenominazione in lire. Per monetizzare il debito la Banca d’Italia potrebbe sì stampare carta moneta, ma col rischio di finire a comprare il pane portando un mucchio di carta straccia nella carriola per pagarlo come nella Repubblica di Weimar.
Non la migliore delle prospettive desiderabili, ecco.

Anche in Italia si scatenerebbe la corsa agli sportelli, obbligando il governo a introdurre limitazioni ai prelievi e facendo perdere allo Stato la capacità di pagare dipendenti, pensioni e fornitori.

È anche per questo motivo che i trattati europei vietano ai paesi aderenti di stampare una moneta parallela e la monetizzazione del debito. È quindi curioso, o forse inquietante, come nel Contratto per il governo del cambiamento, si faccia riferimento alla possibile emissione di titoli di debito pubblico di piccola taglia per pagare i fornitori delle pubbliche amministrazioni. Una sorta di minibot , analizzati da Tommaso Monacelli, che aggirando il Fiscal Compact equivarrebbero a un taglio delle tasse finanziato in deficit e ad una gravissima violazione dei trattati che hanno istituito l’euro.

L’addio alla moneta unica avrebbe effetti anche microeconomici: i prestiti bancari verrebbero necessariamente convertiti nella nuova moneta svalutata e le banche finirebbero inevitabilmente isolate dai mercati finanziari internazionali, rischiando il fallimento in attesa di raggiungere un equilibrio finanziario autarchico difficilmente immaginabile.

Ancora peggio andrebbe alle imprese, checché ne dicano i no-euro, per i quali la svalutazione rappresenta uno strumento potente proprio per sostenere la competitività delle imprese esportatrici, non tenendo conto delle caratteristiche del sistema produttivo italiano. Al Sud le imprese sono mediamente di piccole o piccolissime dimensioni con scarsa esposizione all’export, ergo accuserebbero al massimo le ripercussioni dovute dall’aumento dei prezzi dei beni d’importazione. La grande industria esportatrice del Nord invece perderebbe l’accesso ai principali mercati di sbocco delle nostre merci, cioè quelli europei. Perfino il turismo verrebbe penalizzato dai probabili limiti alla circolazione delle persone imposti dall’Italexit.

Come se tutto ciò non fosse abbastanza, nessuno ha mai preso in considerazione cosa accadrebbe nel periodo di transizione tra le due monete. Lo spiegano chiaramente Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli: presumibilmente tra l’annuncio ufficiale di uscita dall’euro e l’effettiva circolazione della nuova moneta passerebbe almeno un anno, nel quale gli investitori e anche i comuni cittadini cercherebbero di vendere i propri beni e recuperare il proprio denaro prima della svalutazione.

Ancora una volta la Grecia dovrebbe fare da monito: nel luglio 2015 quando sembrava probabile una sua uscita dall’euro i cittadini corsero a ritirare i propri depositi e a vendere i titoli greci, provocando una crisi finanziaria senza precedenti. Anche in Italia si scatenerebbe la corsa agli sportelli, obbligando il governo a introdurre limitazioni ai prelievi e facendo perdere allo Stato la capacità di pagare dipendenti, pensioni e fornitori.

È evidente dunque che l’uscita dall’euro non risolverebbe alcun problema ma anzi li moltiplicherebbe, portando con ogni probabilità al default, con tutte le impensabili conseguenze derivanti dall’isolamento totale del Paese. L’immagine di banconote a nove zeri, file chilometriche al bancomat, supermercati e farmacie vuoti dovrebbe far desistere chi appoggia ipotesi estreme come il ritorno alla sovranità monetaria. Non si tratta di scenari esagerati, ma delle naturali conseguenze di una marcia indietro posta in essere su un processo irreversibile come l’integrazione economica.

L’Italia ha questioni serie da affrontare come la corruzione endemica, l’iper-tassazione, l’iper-regolamentazione, l’evasione fiscale, per citarne solo alcune. Ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta su quale problema affrontare per primo, per cui, anziché pensare a come crearne altri, risolviamo o almeno concentriamoci su quelli già esistenti e non perdiamo ancora tempo a discutere sull’euro. Perchè, come dice Stagnaro, “ogni volta che lo facciamo, sprechiamo risorse intellettuali e alimentiamo costosi timori. Parliamo dell’Italia”.





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