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Renault condannata per un suicidio sul luogo di lavoro
Il tribunale degli affari di sicurezza sociale di Nanterre ha condannato Renault per “colpa inescusabile”. La casa automobilistica è stata considerata responsabile del suicidio di Antonio B., un ingegnere informatico di 39 anni, che il 20 ottobre del 2006 si era ucciso gettandosi dalla finestra del suo luogo di lavoro, il Technocentre di Guyancourt, nelle Yvelines (non lontano da Parigi). In questo centro di ricerca ci sono stati altri suicidi. Antonio B. era oppresso da richieste esagerate di produttività e non ha sopportato l’annuncio del suo trasferimento d’ufficio in Romania.
“Hanno reso giustizia a mio marito – ha dichiarato la moglie dopo la sentenza – è stato riconosciuto cosa ha subito, sopportato da Renault. Spero che questa sentenza sia un segnale forte per tutte le imprese”. La moglie ha denunciato le imprese che “sacrificano tutto sull’altare della redditività” . Ha affermato che , con questo giudizio, “i lavoratori salariati sanno che la giustizia è dalla loro parte”. L’avvocata della famiglia di Antonio B. ha commentato: “spero che si accetti finalmente di rimettere l’uomo al centro di tutte le decisioni”. Secondo l’avvocata, la sentenza dice che “bisogna cessare di invocare la vulnerabilità della gente per spiegare il loro gesto” fatale. ”Non vengo al lavoro per apprendere che ci sono stati dei drammi, per vedere della gente suicidarsi - ha commentato il sindacalista Alain Gueguen di Sud, che lavora al Technocentre – per una volta abbiamo vinto su qualcosa di molto simbolico”.
Alla Renault, prima di France Telecom, aveva avuto luogo una serie di suicidi. In causa erano anche qui i metodi di management: pressioni per aumentare la produttività, tempi strettissimi per completare i lavori, messa in concorrenza dei lavoratori. Antonio B., ha raccontato la moglie, negli ultimi tempi si portava il lavoro a casa, perché le ore passate al Technocentre non bastavano più. Era criticato dai suoi superiori se non portava a termine un carico di lavoro sempre crescente. Carlos Ghosn, il pdg di Renault, aveva dovuto ammettere che qualcosa non stava funzionando nel management. Degli aiuti psicologici erano stati proposti ai dipendenti. Adesso, l’avvocata della Renault, afferma che la società “ha preso atto della decisione” giudiziaria. “Esamineremo la motivazione e ci decideremo sull’eventualità di fare appello”. Renault ha un mese di tempo per fare appello della sentenza, che l’ha condannata ad aumentare la rendita che deve versare alla famiglia di Antonio B. e a pagare un euro simbolico di indennizzo.
di Anna Maria
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martedì 22 dicembre 2009
venerdì 18 dicembre 2009
Fiat, ancora sul tetto a Pomigliano d'Arcp ...
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Fiat, ancora sul tetto a Pomigliano d'Arcp
Sono ancora sul tetto i lavoratori precari della Fiat auto di Pomigliano D’Arco [Napoli], che hanno passato la notte all’addiaccio sopra all’edificio del comune e continuano a occupare l’aula consiliare. Martedì prossimo alle 16 è convocato a Roma il tavolo con l’azienda e le parti sociali.
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Fiat, ancora sul tetto a Pomigliano d'Arcp
Sono ancora sul tetto i lavoratori precari della Fiat auto di Pomigliano D’Arco [Napoli], che hanno passato la notte all’addiaccio sopra all’edificio del comune e continuano a occupare l’aula consiliare. Martedì prossimo alle 16 è convocato a Roma il tavolo con l’azienda e le parti sociali.
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giovedì 10 dicembre 2009
Eternit Spa da oggi in tribunale........
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Eternit Spa da oggi in tribunale
Wwf
Al via il più grande processo mai celebrato in Europa in tema di sicurezza sul lavoro e inquinamento ambientale. Oltre duemila le vittime accertate dell’esposizione all'amianto, indeterminato il numero di lavoratori e popolazione colpita. Anche il Wwf è parte civile.
E’ iniziato oggi davanti al tribunale penale di Torino il più grande processo in tema di sicurezza sul lavoro e inquinamento ambientale provocato dall’amianto mai celebrato in Europa. Al banco degli imputati siedono i vertici della multinazionale Eternit Spa esercente gli stabilimenti di Casale Monferrato, Cavagnolo, Bagnoli e Rubiera, accusati di omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro e disastro doloso. Oltre 2.000 le vittime colpite da asbestosi e mesotelioma pleurico, causato dall’esposizione all’amianto dal 1952 al 2008: numeri talmente fuori misura da rendere necessaria la notifica del decreto che dispone il giudizio per pubblici annunzi, ovvero pubblicandolo su vari siti internet istituzionali, con diffusione di un comunicato stampa dell’ufficio di presidenza del tribunale di Torino e, addirittura, con pubblicazione nella gazzetta ufficiale.
Il colpevole si conosce già: l’amianto. Così come si conoscono i luoghi in cui questo terribile materiale ha mietuto le sue vittime, che sono state colpite per decenni non solo all’interno degli stabilimenti ma anche in aree pubbliche e private al di fuori e nelle stesse abitazioni dei lavoratori, dove quotidianamente facevano ingresso gli indumenti da lavoro non sottoposti a pulizia in ambito aziendale. Ecco perché la pubblica accusa parla di indeterminato numero di lavoratori e popolazione colpita, ed ecco perché sono diverse centinaia le parti civili, compreso il Wwf, che hanno occupato le tre maxi aule messe a disposizione dal Tribunale in cui si celebra il processo.
Le lunghe indagini condotte dal pubblico ministero Guariniello hanno accertato una serie di omissioni nella gestione dei cicli di produzione e una serie di danni conclamati che si sono verificati in un’area ben più vasta rispetta a quello del singolo stabilimento. Basti infatti pensare che per il solo inquinamento relativo a Casale Monferrato il ministero dell’ambiente, che ha individuato l’area interessata direttamente dall’inquinamento di amianto, ha dovuto perimetrare 738,95 chilometri quadrati ricadenti nei territori di ben 48 comuni. Si tratta di territori interessati non solo dalla massiccia presenza di materiali in eternit [cioè di amianto-cemento con cui sono state fatte tettoie, tubature, cassoni dell’acqua, coibentazioni, ecc.], ma anche dalla diffusione degli scarichi della lavorazione di questo. Quest’area è oggi Sito di importanza nazionale [Sin] soggetto a bonifica ed è già stato avviato un complesso intervento con uno stanziamento di 35,5 milioni di euro. Complesso il piano degli interventi, che interessa non solo le aree di pertinenza dello stabilimento Eternit, ma addirittura anche un pezzo della sponda del Po dove lo stabilimento scaricava; migliaia poi gli interventi puntuali di rimozione di materiali che hanno reso necessaria anche la predisposizione di una discarica ad hoc.
Nel nostro ordinamento l’amianto è stato messo al bando con un’apposita legge solo nel 1992 e solo nel 1998 sono state individuate [sempre per legge] le prime aree da sottoporre a bonifica. Oggi i Sin da bonifica individuati per legge o per decreto ministeriale sono 7: oltre a Casale Monferrato, sempre in Piemonte c’è anche Balangero [in provincia di Torino], ci sono poi Emarese in provincia di Aosta, Broni in provincia di Pavia, Bari, Bagnoli a Napoli e Targia a Siracusa.
Il problema dell’amianto è troppo spesso sottovalutato poiché questo materiale ha avuto anche nel nostro Paese un’enorme diffusione dal dopoguerra sino agli anni ‘70. Si può dire che sia presente in ogni città e gli interventi di rimozione, pur essendo rigidamente normati, sono spesso lenti e in molti casi non ancora effettuati. Le conseguenze di questa forma d’inquinamento sono ormai conosciute, anche se l’evoluzione di queste non è perfettamente nota. Basti pensare infatti che è stato stimato che l’apice delle forme tumorali a causa dell’amianto sarà riscontrabile tra il 2015 e il 2020.
Il processo di Torino non costituisce solo la risposta dovuta dallo Stato nei confronti di una situazione così grave, ma anche un monito per tutti coloro che continuano ad essere ciechi e sordi rispetto ai criteri di precauzione che devono sempre essere adottati quando non si è in grado di escludere scientificamente che determinate materie o sostanze possano compromettere la salute e l’ambiente.
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Eternit Spa da oggi in tribunale
Wwf
Al via il più grande processo mai celebrato in Europa in tema di sicurezza sul lavoro e inquinamento ambientale. Oltre duemila le vittime accertate dell’esposizione all'amianto, indeterminato il numero di lavoratori e popolazione colpita. Anche il Wwf è parte civile.
E’ iniziato oggi davanti al tribunale penale di Torino il più grande processo in tema di sicurezza sul lavoro e inquinamento ambientale provocato dall’amianto mai celebrato in Europa. Al banco degli imputati siedono i vertici della multinazionale Eternit Spa esercente gli stabilimenti di Casale Monferrato, Cavagnolo, Bagnoli e Rubiera, accusati di omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro e disastro doloso. Oltre 2.000 le vittime colpite da asbestosi e mesotelioma pleurico, causato dall’esposizione all’amianto dal 1952 al 2008: numeri talmente fuori misura da rendere necessaria la notifica del decreto che dispone il giudizio per pubblici annunzi, ovvero pubblicandolo su vari siti internet istituzionali, con diffusione di un comunicato stampa dell’ufficio di presidenza del tribunale di Torino e, addirittura, con pubblicazione nella gazzetta ufficiale.
Il colpevole si conosce già: l’amianto. Così come si conoscono i luoghi in cui questo terribile materiale ha mietuto le sue vittime, che sono state colpite per decenni non solo all’interno degli stabilimenti ma anche in aree pubbliche e private al di fuori e nelle stesse abitazioni dei lavoratori, dove quotidianamente facevano ingresso gli indumenti da lavoro non sottoposti a pulizia in ambito aziendale. Ecco perché la pubblica accusa parla di indeterminato numero di lavoratori e popolazione colpita, ed ecco perché sono diverse centinaia le parti civili, compreso il Wwf, che hanno occupato le tre maxi aule messe a disposizione dal Tribunale in cui si celebra il processo.
Le lunghe indagini condotte dal pubblico ministero Guariniello hanno accertato una serie di omissioni nella gestione dei cicli di produzione e una serie di danni conclamati che si sono verificati in un’area ben più vasta rispetta a quello del singolo stabilimento. Basti infatti pensare che per il solo inquinamento relativo a Casale Monferrato il ministero dell’ambiente, che ha individuato l’area interessata direttamente dall’inquinamento di amianto, ha dovuto perimetrare 738,95 chilometri quadrati ricadenti nei territori di ben 48 comuni. Si tratta di territori interessati non solo dalla massiccia presenza di materiali in eternit [cioè di amianto-cemento con cui sono state fatte tettoie, tubature, cassoni dell’acqua, coibentazioni, ecc.], ma anche dalla diffusione degli scarichi della lavorazione di questo. Quest’area è oggi Sito di importanza nazionale [Sin] soggetto a bonifica ed è già stato avviato un complesso intervento con uno stanziamento di 35,5 milioni di euro. Complesso il piano degli interventi, che interessa non solo le aree di pertinenza dello stabilimento Eternit, ma addirittura anche un pezzo della sponda del Po dove lo stabilimento scaricava; migliaia poi gli interventi puntuali di rimozione di materiali che hanno reso necessaria anche la predisposizione di una discarica ad hoc.
Nel nostro ordinamento l’amianto è stato messo al bando con un’apposita legge solo nel 1992 e solo nel 1998 sono state individuate [sempre per legge] le prime aree da sottoporre a bonifica. Oggi i Sin da bonifica individuati per legge o per decreto ministeriale sono 7: oltre a Casale Monferrato, sempre in Piemonte c’è anche Balangero [in provincia di Torino], ci sono poi Emarese in provincia di Aosta, Broni in provincia di Pavia, Bari, Bagnoli a Napoli e Targia a Siracusa.
Il problema dell’amianto è troppo spesso sottovalutato poiché questo materiale ha avuto anche nel nostro Paese un’enorme diffusione dal dopoguerra sino agli anni ‘70. Si può dire che sia presente in ogni città e gli interventi di rimozione, pur essendo rigidamente normati, sono spesso lenti e in molti casi non ancora effettuati. Le conseguenze di questa forma d’inquinamento sono ormai conosciute, anche se l’evoluzione di queste non è perfettamente nota. Basti pensare infatti che è stato stimato che l’apice delle forme tumorali a causa dell’amianto sarà riscontrabile tra il 2015 e il 2020.
Il processo di Torino non costituisce solo la risposta dovuta dallo Stato nei confronti di una situazione così grave, ma anche un monito per tutti coloro che continuano ad essere ciechi e sordi rispetto ai criteri di precauzione che devono sempre essere adottati quando non si è in grado di escludere scientificamente che determinate materie o sostanze possano compromettere la salute e l’ambiente.
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Editoria. Legacoop chiede di ripristinare il diritto........
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Editoria. Legacoop chiede di ripristinare il diritto soggettivo
Legacoop
Dopo il colpo di mano del ministro dell'economia Giulio Tremonti, sono 95 le testate che rischiano di chiudere e migliaia i lavoratori che potrebbero trovarsi disoccupati.
La Direzione Nazionale di Legacoop, rivolge un pressante appello al Parlamento al Governo e in particolare al Ministro Tremonti affinché rivedano la decisione di anticipare al 2010 la soppressione del «diritto soggettivo» per i contributi all’editoria cooperativa. Sarebbe così possibile avere un anno di tempo per avviare una vera e profonda riforma per il settore dell’editoria. È appena il caso di ricordare che senza la certezza del contributo e della sua disponibilità non è possibile non solo impostare la programmazione delle attività, ma neppure svolgerle per l’impossibilità delle banche di anticipare le risorse necessarie, e, soprattutto, non è possibile redigere i bilanci in modo credibile e in grado di essere certificati, condizione questa per avanzare la domanda all’accesso ai contributi. Non va dimenticato che la cooperativa di giornalisti, così come è stata disegnata dalla legge, è una forma di impresa particolarmente rigida negli aspetti gestionali e soprattutto nei limiti alla sua capitalizzazione e nella possibilità di accesso alle risorse finanziarie di rischio.
Molte cooperative sono in grande difficoltà per le condizioni di mercato, provocate dalla crisi in atto che ha ulteriormente falcidiato le modeste risorse pubblicitarie acquisibili; alcune aziende hanno già avviato le pratiche per la dichiarazione dello stato di crisi, difficile da superare per la impossibilità oggettiva di un credibile piano di rilancio. In queste condizioni la chiusura di molte cooperative, aderenti o meno a Mediacoop, sarà difficilmente evitabile e riguarderà larga parte degli operatori che hanno scelto la cooperativa per svolgere la propria attività informativa per la piena libertà ideologica e di autogoverno che garantisce [si tratta di 95 testate cooperative, non profit e di partito, tra quotidiani e periodici per un ammontare complessivo di 2000 giornalisti e 2500 poligrafici].
Legacoop chiede che si ripari subito a questa decisione, che sopprime il «diritto soggettivo», inserita in modo imprevisto e immotivato nel maxi emendamento alla Finanziaria proposto dalla maggioranza. Ciò senza attendere un successivo provvedimento riparatorio, soprattutto in presenza delle dichiarazioni convergenti attribuite al ministro Tremonti e al Presidente Fini in queste ore . Solo così si può evitare il sospetto che la motivazione che ha determinato questa decisione sia quella dell’accrescimento della discrezionalità dell’Esecutivo e della emarginazione del Parlamento. Occorrono nuove regole, certe, per definire criteri oggettivi di accesso ai contributi, riaffidandole alle competenze del Parlamento in modo che si possano realizzare contemporaneamente risparmi per le finanze pubbliche ma anche la eliminazione degli effetti distorsivi che la legislazione ha accumulato in questi anni. Solo così è possibile, – come da quattro anni richiesto da Mediacoop – salvaguardare le imprese meritevoli per qualità del servizio informativo erogato, per stabilità e adeguatezza delle redazioni e per una certa e documentata presenza nelle edicole ed escludere quelle che tali requisiti minimi non hanno e che con il loro comportamento discreditano una platea di attori che sono i soli ad interpretare il ruolo di editore puro.
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Editoria. Legacoop chiede di ripristinare il diritto soggettivo
Legacoop
Dopo il colpo di mano del ministro dell'economia Giulio Tremonti, sono 95 le testate che rischiano di chiudere e migliaia i lavoratori che potrebbero trovarsi disoccupati.
La Direzione Nazionale di Legacoop, rivolge un pressante appello al Parlamento al Governo e in particolare al Ministro Tremonti affinché rivedano la decisione di anticipare al 2010 la soppressione del «diritto soggettivo» per i contributi all’editoria cooperativa. Sarebbe così possibile avere un anno di tempo per avviare una vera e profonda riforma per il settore dell’editoria. È appena il caso di ricordare che senza la certezza del contributo e della sua disponibilità non è possibile non solo impostare la programmazione delle attività, ma neppure svolgerle per l’impossibilità delle banche di anticipare le risorse necessarie, e, soprattutto, non è possibile redigere i bilanci in modo credibile e in grado di essere certificati, condizione questa per avanzare la domanda all’accesso ai contributi. Non va dimenticato che la cooperativa di giornalisti, così come è stata disegnata dalla legge, è una forma di impresa particolarmente rigida negli aspetti gestionali e soprattutto nei limiti alla sua capitalizzazione e nella possibilità di accesso alle risorse finanziarie di rischio.
Molte cooperative sono in grande difficoltà per le condizioni di mercato, provocate dalla crisi in atto che ha ulteriormente falcidiato le modeste risorse pubblicitarie acquisibili; alcune aziende hanno già avviato le pratiche per la dichiarazione dello stato di crisi, difficile da superare per la impossibilità oggettiva di un credibile piano di rilancio. In queste condizioni la chiusura di molte cooperative, aderenti o meno a Mediacoop, sarà difficilmente evitabile e riguarderà larga parte degli operatori che hanno scelto la cooperativa per svolgere la propria attività informativa per la piena libertà ideologica e di autogoverno che garantisce [si tratta di 95 testate cooperative, non profit e di partito, tra quotidiani e periodici per un ammontare complessivo di 2000 giornalisti e 2500 poligrafici].
Legacoop chiede che si ripari subito a questa decisione, che sopprime il «diritto soggettivo», inserita in modo imprevisto e immotivato nel maxi emendamento alla Finanziaria proposto dalla maggioranza. Ciò senza attendere un successivo provvedimento riparatorio, soprattutto in presenza delle dichiarazioni convergenti attribuite al ministro Tremonti e al Presidente Fini in queste ore . Solo così si può evitare il sospetto che la motivazione che ha determinato questa decisione sia quella dell’accrescimento della discrezionalità dell’Esecutivo e della emarginazione del Parlamento. Occorrono nuove regole, certe, per definire criteri oggettivi di accesso ai contributi, riaffidandole alle competenze del Parlamento in modo che si possano realizzare contemporaneamente risparmi per le finanze pubbliche ma anche la eliminazione degli effetti distorsivi che la legislazione ha accumulato in questi anni. Solo così è possibile, – come da quattro anni richiesto da Mediacoop – salvaguardare le imprese meritevoli per qualità del servizio informativo erogato, per stabilità e adeguatezza delle redazioni e per una certa e documentata presenza nelle edicole ed escludere quelle che tali requisiti minimi non hanno e che con il loro comportamento discreditano una platea di attori che sono i soli ad interpretare il ruolo di editore puro.
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mercoledì 2 dicembre 2009
La guerra dell'auto e il lavoro
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La guerra dell'auto e il lavoro
«Siamo stati chiari, dopo la fine del 2011 Termini Imerese non produrrà più auto». Chiaro mica tanto, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Uscendo dall’incontro di questa mattina con il ministro per lo sviluppo economico, Claudio Scajola, Marchionne annuncia uno sviluppo diverso per lo stabilimento siciliano, ma rimanda tutto al 21 dicembre, quando presenterà a governo e parti sociali il piano messo a punto dalla Fiat. E allora, giusto alla vigilia di Natale, forse anche i lavoratori dell’auto italiana sapranno qualcosa del loro futuro e, magari, anche quelli di Termini Imerese conosceranno che cosa è quel qualcos’altro diverso dall’auto che dovrebbero produrre dopo la fine del 2011.
Se non fosse che dall’altra parte c’è un’industria come la Fiat e un ministro come Scajola, potrebbe essere l’occasione per preparare il terreno a un’«industria della mobilità», volano certamente di più occupazione e più stabile di quella dell’auto. Sull’«auto insostenibile» ha scritto di recente Gaetano Lamanna, Spi Cgil nazionale, parlando appunto dell’industria della mobilità in alternativa a quella dell’auto «in un’ottica nuova e attenta ai problemi della sostenibilità ambientale e della riconversione graduale di questo importante comparto dell’industria». E’ un tema che dovrebbero affrontare con più attenzione anche i sindacati di categoria, che, per difendere i posti di lavoro non solo oggi ma anche nel futuro prossimo, dovrebbero pensare a qualcosa di diverso che non sia solo l’auto privata. Ma, oggi, tutti chiedono nient’altro che incrementare di molto la produzione di auto in Italia, almeno 900 mila vetture l’anno dice il governo. «Un numero non astronomico», risponde Marchionne, che ha ostentato indifferenza sul tema degli incentivi: è il governo a decidere, ha detto secco. Invece, per la Fiom, 900 mila auto sono un obiettivo modesto, una produzione sottodimensionata rispetto alle capacità produttive in Italia: «Significa una drastica riduzione della produzione in Italia. Sicuramente con questi numeri non si salva Termini Imerese. Da quello che circola, un terzo o quasi di queste 900 mila auto sarebbero nuove Panda. Come piano, in proiezione pluriennale, è inconsistente».
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La guerra dell'auto e il lavoro
«Siamo stati chiari, dopo la fine del 2011 Termini Imerese non produrrà più auto». Chiaro mica tanto, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Uscendo dall’incontro di questa mattina con il ministro per lo sviluppo economico, Claudio Scajola, Marchionne annuncia uno sviluppo diverso per lo stabilimento siciliano, ma rimanda tutto al 21 dicembre, quando presenterà a governo e parti sociali il piano messo a punto dalla Fiat. E allora, giusto alla vigilia di Natale, forse anche i lavoratori dell’auto italiana sapranno qualcosa del loro futuro e, magari, anche quelli di Termini Imerese conosceranno che cosa è quel qualcos’altro diverso dall’auto che dovrebbero produrre dopo la fine del 2011.
Se non fosse che dall’altra parte c’è un’industria come la Fiat e un ministro come Scajola, potrebbe essere l’occasione per preparare il terreno a un’«industria della mobilità», volano certamente di più occupazione e più stabile di quella dell’auto. Sull’«auto insostenibile» ha scritto di recente Gaetano Lamanna, Spi Cgil nazionale, parlando appunto dell’industria della mobilità in alternativa a quella dell’auto «in un’ottica nuova e attenta ai problemi della sostenibilità ambientale e della riconversione graduale di questo importante comparto dell’industria». E’ un tema che dovrebbero affrontare con più attenzione anche i sindacati di categoria, che, per difendere i posti di lavoro non solo oggi ma anche nel futuro prossimo, dovrebbero pensare a qualcosa di diverso che non sia solo l’auto privata. Ma, oggi, tutti chiedono nient’altro che incrementare di molto la produzione di auto in Italia, almeno 900 mila vetture l’anno dice il governo. «Un numero non astronomico», risponde Marchionne, che ha ostentato indifferenza sul tema degli incentivi: è il governo a decidere, ha detto secco. Invece, per la Fiom, 900 mila auto sono un obiettivo modesto, una produzione sottodimensionata rispetto alle capacità produttive in Italia: «Significa una drastica riduzione della produzione in Italia. Sicuramente con questi numeri non si salva Termini Imerese. Da quello che circola, un terzo o quasi di queste 900 mila auto sarebbero nuove Panda. Come piano, in proiezione pluriennale, è inconsistente».
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lunedì 23 novembre 2009
Portovesme, Porto Torres, Arese, Roma: quattro battaglie operaie
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Portovesme, Porto Torres, Arese, Roma: quattro battaglie operaie
Linda Panco
Il blitz notturno al porto degli operai dell'Alcoa, lo sciopero della fame di quelli della Vinylis, l'occupazione dell'autostrada di quelli dell'Alfa Romeo di Arese, la campagna di solidarietà con gli operai Eutelia senza stipendio da quattro mesi: e c'è chi dice che la crisi è alle nostre spalle
I lavoratori dell’Alcoa di Portovesme hanno bloccato nella notte una nave carica di carbone destinato alla vicina centrale Enel, mentre prosegue il presidio davanti alla fabbrica di alluminio di cui la multinazionale americana ha annunciato la chiusura. Il blitz è scattato poco dopo mezzanotte: gli operai si sono dati appuntamento al porto, accanto all’area industriale di Portovesme, e hanno impedito lo scarico del carbone. Poi sono entrati nella centrale Enel e soltanto dopo una lunga trattativa hanno lasciato l’impianto attorno alle 2.30. Un’auto parcheggiata lungo la strada fra lo stabilimento Alcoa e la centrale è stata incendiata. Il presidio all’Alcoa dalla scorsa settimana blocca l’uscita dell’alluminio prodotto nello stabilimento, circa 400 tonnellate al giorno. Centinaia di persone, fra lavoratori, amministratori e familiari, si preparano a partire mercoledì sera da Cagliari per raggiungere Roma e partecipare alla manifestazione promossa dai sindacati, in piazza Colonna, giovedì prossimo. Stasera si riuniranno le segreterie di Cgil, Cisl e Uil del Sulcis per organizzarsi.
A Porto Torres continua l’occupazione degli stabilimenti Vinyls da parte degli operai da oggi in cassa integrazione. Una settantina di lavoratori, tutti in sciopero della fame, hanno occupato dalle 6 di ieri il sesto piano della palazzina «finitura» con un presidio nelle «sale controllo pvc e vcm». Sono 101 su circa 140 i dipendenti interessati dalle procedure di cassa integrazione, che dovrebbero durare sei settimane, mentre a quattordici giovani, assunti con contratto di apprendistato per due anni, non sarà rinnovata l’assunzione. In un comunicato inviato al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al presidente della Regione sarda Ugo Cappellacci, alle istituzioni e ai sindacati del territorio e alla direzione degli stabilimenti, i lavoratori hanno posto tre condizioni per la smobilitazione: la riconferma e la trasformazione dei contratti di apprendistato in scadenza, la rotazione completa del personale per una efficiente e reale sicurezza delle squadre con una riduzione quindi della cassa integrazione, e un immediato intervento di Regione e amministratori locali nei confronti del governo perché imponga un rapido avviamento degli impianti col rilancio delle produzioni di cloro-derivati. La Vinyls è attualmente commissariata.
Un gruppo di operai dell’Alfa Romeo di Arese, nel milanese, ha invece bloccato nella mattina per circa mezz’ora l’autostrada A9, all’altezza del casello di Lainate, per protestare contro il trasferimento a Torino di 232 lavoratori. Il corteo era partito dallo stabilmento e i lavoratori poi sono tornati davanti ai cancelli, dove è in corso un presidio indetto dalle organizzazioni sindacali di categoria. «Fiat maschera i licenziamenti con i trasferimenti», ha spiegato Antonio Cribiù della Fiom. «Noi chiediamo che Fiat ritiri il provvedimento e che mantenga gli impegni presi per lo stabilimento di Arese, per questo siamo in piazza e chiediamo alla Provincia e alla Regione di intervenire. I lavoratori sono in cassa integrazione perché la Fiat dice che c’è un calo di lavoro, ma la Fiat ha comunque fatto degli utili e ha molte opportunità di salvare gli stabilimenti italiani. La sua politica industriale è quella di spostare gli stabilimenti all’estero e licenziare qui in Italia: così è stato fatto per Alfa, e il governo non interviene».
Ed è partita una campagna di solidarietà a favore delle lavoratrici e dei lavoratori Agile ex Eutelia di Roma che non ricevono lo stipendio da quattro mesi. Per sostenere le famiglie in difficoltà economiche è stato attivato il conto corrente intestato a Giovanni Seccia e Gloria Salvatori: Codice IBAN IT28 U076 0103 2000 0009 8822 810 – causale «solidarietà lavoratori Eutelia/Agile». Estratti conto periodici verranno pubblicati sul sito www.eulav.net.
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Portovesme, Porto Torres, Arese, Roma: quattro battaglie operaie
Linda Panco
Il blitz notturno al porto degli operai dell'Alcoa, lo sciopero della fame di quelli della Vinylis, l'occupazione dell'autostrada di quelli dell'Alfa Romeo di Arese, la campagna di solidarietà con gli operai Eutelia senza stipendio da quattro mesi: e c'è chi dice che la crisi è alle nostre spalle
I lavoratori dell’Alcoa di Portovesme hanno bloccato nella notte una nave carica di carbone destinato alla vicina centrale Enel, mentre prosegue il presidio davanti alla fabbrica di alluminio di cui la multinazionale americana ha annunciato la chiusura. Il blitz è scattato poco dopo mezzanotte: gli operai si sono dati appuntamento al porto, accanto all’area industriale di Portovesme, e hanno impedito lo scarico del carbone. Poi sono entrati nella centrale Enel e soltanto dopo una lunga trattativa hanno lasciato l’impianto attorno alle 2.30. Un’auto parcheggiata lungo la strada fra lo stabilimento Alcoa e la centrale è stata incendiata. Il presidio all’Alcoa dalla scorsa settimana blocca l’uscita dell’alluminio prodotto nello stabilimento, circa 400 tonnellate al giorno. Centinaia di persone, fra lavoratori, amministratori e familiari, si preparano a partire mercoledì sera da Cagliari per raggiungere Roma e partecipare alla manifestazione promossa dai sindacati, in piazza Colonna, giovedì prossimo. Stasera si riuniranno le segreterie di Cgil, Cisl e Uil del Sulcis per organizzarsi.
A Porto Torres continua l’occupazione degli stabilimenti Vinyls da parte degli operai da oggi in cassa integrazione. Una settantina di lavoratori, tutti in sciopero della fame, hanno occupato dalle 6 di ieri il sesto piano della palazzina «finitura» con un presidio nelle «sale controllo pvc e vcm». Sono 101 su circa 140 i dipendenti interessati dalle procedure di cassa integrazione, che dovrebbero durare sei settimane, mentre a quattordici giovani, assunti con contratto di apprendistato per due anni, non sarà rinnovata l’assunzione. In un comunicato inviato al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al presidente della Regione sarda Ugo Cappellacci, alle istituzioni e ai sindacati del territorio e alla direzione degli stabilimenti, i lavoratori hanno posto tre condizioni per la smobilitazione: la riconferma e la trasformazione dei contratti di apprendistato in scadenza, la rotazione completa del personale per una efficiente e reale sicurezza delle squadre con una riduzione quindi della cassa integrazione, e un immediato intervento di Regione e amministratori locali nei confronti del governo perché imponga un rapido avviamento degli impianti col rilancio delle produzioni di cloro-derivati. La Vinyls è attualmente commissariata.
Un gruppo di operai dell’Alfa Romeo di Arese, nel milanese, ha invece bloccato nella mattina per circa mezz’ora l’autostrada A9, all’altezza del casello di Lainate, per protestare contro il trasferimento a Torino di 232 lavoratori. Il corteo era partito dallo stabilmento e i lavoratori poi sono tornati davanti ai cancelli, dove è in corso un presidio indetto dalle organizzazioni sindacali di categoria. «Fiat maschera i licenziamenti con i trasferimenti», ha spiegato Antonio Cribiù della Fiom. «Noi chiediamo che Fiat ritiri il provvedimento e che mantenga gli impegni presi per lo stabilimento di Arese, per questo siamo in piazza e chiediamo alla Provincia e alla Regione di intervenire. I lavoratori sono in cassa integrazione perché la Fiat dice che c’è un calo di lavoro, ma la Fiat ha comunque fatto degli utili e ha molte opportunità di salvare gli stabilimenti italiani. La sua politica industriale è quella di spostare gli stabilimenti all’estero e licenziare qui in Italia: così è stato fatto per Alfa, e il governo non interviene».
Ed è partita una campagna di solidarietà a favore delle lavoratrici e dei lavoratori Agile ex Eutelia di Roma che non ricevono lo stipendio da quattro mesi. Per sostenere le famiglie in difficoltà economiche è stato attivato il conto corrente intestato a Giovanni Seccia e Gloria Salvatori: Codice IBAN IT28 U076 0103 2000 0009 8822 810 – causale «solidarietà lavoratori Eutelia/Agile». Estratti conto periodici verranno pubblicati sul sito www.eulav.net.
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martedì 10 novembre 2009
Eutelia. Raid squadristico contro il presidio degli operai
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Ex Eutelia. Raid squadristico contro il presidio degli operai
Emiliano Viccaro
Quindici vigilantes, comandati dall'ex amministratore delegato, si spacciano per poliziotti e fanno irruzione nello stabilimento presidiato dai lavoratori in lotta contro il piano di licenziamenti. Una troupe di giornalisti Rai riprende la scena e chiama la polizia. Sindacati e sinistra denunciano "l'aggressione squadristica" e chiedono l'intervento del governo.
Una cosa del genere non si era mai vista. O meglio, si era vista a cavallo del “biennio rosso” e i primi anni venti, durante la nascita del fascismo, quando le milizie in camicia nera davano man forte agli industriali rompendo i picchetti degli scioperi operai. Questa mattina, all’alba, una quindicina di vigilantes, comandati da Samuele Landi, ex amministratore delegato della società informatica Agile [ex Eutelia], hanno fatto irruzione nella sede del gruppo presidiato dai lavoratori, nel quartiere Tiburtino. Obiettivo del raid, interrompere l’occupazione dei locali da parte dei dipendenti da tre mesi non ricevono lo stipendio e in mobilitazione permanente contro i tagli e i licenziamenti.
La proprietà, infatti, ha avviato la procedura di licenziamento collettivo nei confronti di 1200 dipendenti in tutta Italia, 284 nella sola sede di Roma. Davanti questa decisione, i 2000 dipendenti hanno deciso di occupare le sedi di Torino, Ivrea, Pregnana Milanese, Napoli e Roma. La vicenda inizia negli anni ‘90 quando la Olivetti Solutions viene venduta prima alla multinazionale Wang e poi a Getronix. Nel 2006 la famiglia aretina Landi compra Getronix e numerose altre aziende. Dalla fusione di queste imprese viene creato il marchio Eutelia. I bilanci dell’impresa iniziano ad andare in rosso e attirano l’attenzione della guardia di finanza che apre delle indagini. A giugno 2008 viene annunciata la crisi, parte la cassa integrazione per i lavoratori e poi i contratti di solidarietà. A gennaio 2009 viene annunciata la dismissione del settore informatico. A giugno la famiglia Landi cede il ramo informatico ad Agile, piccola srl di Potenza a sua volta rilevata a da Omega spa. Da allora, crisi nera e procedimenti di mobilità.
Nella capitale il presidio è iniziato il 28 ottobre scorso con l’occupazione dei tetti dello stabilimento. Per spezzare la resistenza, questa mattina i vigilantes, armati con piedi di porco, hanno divelto le porte degli uffici, hanno svegliato i lavoratori puntando loro negli occhi le torce elettriche, spacciandosi per poliziotti, chiedendo i documenti, minacciando gli stessi lavoratori e impedendo loro di muoversi. Sfortunatamente per le guardie giurate, all’irruzione erano presenti le telecamere del programma “Crash” di Rai Educational che hanno ripreso la scena. Federico Ruffo, giornalista Rai, si è rifiutato di consegnare i documenti e ha chiamato la polizia. Gli agenti hanno identificato i componenti della falsa squadra e il proprietario dell’azienda, facendoli immediatamente uscire prima che la tensione degenerasse in uno scontro con i lavoratori. La Digos ha acquisito i nastri della registrazione per stabilire la dinamica dei fatti.
“L’attacco contro la protesta dei lavoratori mostra il volto violento dell’imprenditoria – ha detto Claudio Di Berardino, segretario generale della Cgil di Roma e Lazio – I sindacati hanno chiesto l’intervento immediato della presidenza del consiglio dei ministri affinché convochi un tavolo per risolvere, con un vero piano industriale, la vertenza Eutelia e il dramma occupazionale dei suoi dipendenti. "Siamo tornati indietro ai primi dell’800 – ha commentato Andrea Alzetta, consigliere comunale – L’ultimo episodio simile a questo risale ai tempi della rivoluzione industriale. Ritengo gravissimo questo atto di aggressione, operato con il metodo di terrore sdoganato e legittimato dal governo”.
Sulla vicenda è intervenuta anche Alessandra Tibaldi, assessore regionale al lavoro, che ha chiesto “la convocazione urgente di un tavolo di confronto nazionale sulla vertenza Eutelia. Non si può accettare l’intervento di sgombero del presidio dei lavoratori. Qualora i tempi di convocazione dovessero slittare – ha concluso Tibaldi – la Regione è pronta a convocare le parti d’intesa con il Prefetto". Oggi alle 18, sit in davanti alla Camera promosso dai giovani del Pdci, "per protestare contro un’aggressione che ricorda gli squadroni della morte sudamericani”.
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Ex Eutelia. Raid squadristico contro il presidio degli operai
Emiliano Viccaro
Quindici vigilantes, comandati dall'ex amministratore delegato, si spacciano per poliziotti e fanno irruzione nello stabilimento presidiato dai lavoratori in lotta contro il piano di licenziamenti. Una troupe di giornalisti Rai riprende la scena e chiama la polizia. Sindacati e sinistra denunciano "l'aggressione squadristica" e chiedono l'intervento del governo.
Una cosa del genere non si era mai vista. O meglio, si era vista a cavallo del “biennio rosso” e i primi anni venti, durante la nascita del fascismo, quando le milizie in camicia nera davano man forte agli industriali rompendo i picchetti degli scioperi operai. Questa mattina, all’alba, una quindicina di vigilantes, comandati da Samuele Landi, ex amministratore delegato della società informatica Agile [ex Eutelia], hanno fatto irruzione nella sede del gruppo presidiato dai lavoratori, nel quartiere Tiburtino. Obiettivo del raid, interrompere l’occupazione dei locali da parte dei dipendenti da tre mesi non ricevono lo stipendio e in mobilitazione permanente contro i tagli e i licenziamenti.
La proprietà, infatti, ha avviato la procedura di licenziamento collettivo nei confronti di 1200 dipendenti in tutta Italia, 284 nella sola sede di Roma. Davanti questa decisione, i 2000 dipendenti hanno deciso di occupare le sedi di Torino, Ivrea, Pregnana Milanese, Napoli e Roma. La vicenda inizia negli anni ‘90 quando la Olivetti Solutions viene venduta prima alla multinazionale Wang e poi a Getronix. Nel 2006 la famiglia aretina Landi compra Getronix e numerose altre aziende. Dalla fusione di queste imprese viene creato il marchio Eutelia. I bilanci dell’impresa iniziano ad andare in rosso e attirano l’attenzione della guardia di finanza che apre delle indagini. A giugno 2008 viene annunciata la crisi, parte la cassa integrazione per i lavoratori e poi i contratti di solidarietà. A gennaio 2009 viene annunciata la dismissione del settore informatico. A giugno la famiglia Landi cede il ramo informatico ad Agile, piccola srl di Potenza a sua volta rilevata a da Omega spa. Da allora, crisi nera e procedimenti di mobilità.
Nella capitale il presidio è iniziato il 28 ottobre scorso con l’occupazione dei tetti dello stabilimento. Per spezzare la resistenza, questa mattina i vigilantes, armati con piedi di porco, hanno divelto le porte degli uffici, hanno svegliato i lavoratori puntando loro negli occhi le torce elettriche, spacciandosi per poliziotti, chiedendo i documenti, minacciando gli stessi lavoratori e impedendo loro di muoversi. Sfortunatamente per le guardie giurate, all’irruzione erano presenti le telecamere del programma “Crash” di Rai Educational che hanno ripreso la scena. Federico Ruffo, giornalista Rai, si è rifiutato di consegnare i documenti e ha chiamato la polizia. Gli agenti hanno identificato i componenti della falsa squadra e il proprietario dell’azienda, facendoli immediatamente uscire prima che la tensione degenerasse in uno scontro con i lavoratori. La Digos ha acquisito i nastri della registrazione per stabilire la dinamica dei fatti.
“L’attacco contro la protesta dei lavoratori mostra il volto violento dell’imprenditoria – ha detto Claudio Di Berardino, segretario generale della Cgil di Roma e Lazio – I sindacati hanno chiesto l’intervento immediato della presidenza del consiglio dei ministri affinché convochi un tavolo per risolvere, con un vero piano industriale, la vertenza Eutelia e il dramma occupazionale dei suoi dipendenti. "Siamo tornati indietro ai primi dell’800 – ha commentato Andrea Alzetta, consigliere comunale – L’ultimo episodio simile a questo risale ai tempi della rivoluzione industriale. Ritengo gravissimo questo atto di aggressione, operato con il metodo di terrore sdoganato e legittimato dal governo”.
Sulla vicenda è intervenuta anche Alessandra Tibaldi, assessore regionale al lavoro, che ha chiesto “la convocazione urgente di un tavolo di confronto nazionale sulla vertenza Eutelia. Non si può accettare l’intervento di sgombero del presidio dei lavoratori. Qualora i tempi di convocazione dovessero slittare – ha concluso Tibaldi – la Regione è pronta a convocare le parti d’intesa con il Prefetto". Oggi alle 18, sit in davanti alla Camera promosso dai giovani del Pdci, "per protestare contro un’aggressione che ricorda gli squadroni della morte sudamericani”.
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mercoledì 4 novembre 2009
Protestano i lavoratori dell'Alcoa di Marghera
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Protestano i lavoratori dell'Alcoa di Marghera
I lavoratori dell’Alcoa di Porto Marghera protestano per scongiurare la chiusura della loro azienda, la multinazionale statunitense dell’alluminio. Questa mattina sono scesi in strada in circa cinquecento, provocando blocchi temporanei della Romea. Sembra, infatti, che l’Alcoa voglia andare avanti solo per poche settimane ancora. E i lavoratori minacciano iniziative clamorose come l’occupazione delle fabbriche.
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Protestano i lavoratori dell'Alcoa di Marghera
I lavoratori dell’Alcoa di Porto Marghera protestano per scongiurare la chiusura della loro azienda, la multinazionale statunitense dell’alluminio. Questa mattina sono scesi in strada in circa cinquecento, provocando blocchi temporanei della Romea. Sembra, infatti, che l’Alcoa voglia andare avanti solo per poche settimane ancora. E i lavoratori minacciano iniziative clamorose come l’occupazione delle fabbriche.
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venerdì 23 ottobre 2009
Lavoro e legalità per battere la mafia
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Lavoro e legalità per battere la mafia
Oltre 2000 persone si danno appuntamento a Roma in questi giorni per riflettere e fare il punto della situazione sull’impegno comune per radicare la cultura del rispetto delle regole. È la seconda edizione di Contromafie dopo quella che nel novembre 2006 si era conclusa con un manifesto che vede oggi alcuni obiettivi raggiunti e altre istanze ancora inadempiute.
Ci rendiamo conto oggi che, anche a fronte di alcuni indiscutibili successi, soprattutto da parte della magistratura e delle forze dell’ordine e dei passi in avanti che abbiamo compiuto verso una maggiore consapevolezza frutto dello sforzo educativo, ancora tanto c’è da fare. Noi come organizzazioni sociali ci siamo assunti l’impegno e la responsabilità di compiere ogni passo necessario nella direzione della giustizia ma siamo altrettanto coscienti che nulla sarà possibile realizzare senza il sostegno convinto della politica. A questa spetta il compito di recidere ogni filo sospetto e di produrre leggi efficaci e comportamenti corretti.
Quanto ci amareggia in questi giorni venire a conoscenza di interlocuzioni e patteggiamenti tra pezzi delle istituzioni ed esponenti della criminalità organizzata! Quanto ci indigna sapere che l’indolenza di alcuni, la disponibilità al compromesso di altri, la corruzione di altri ancora… hanno rischiato di vanificare il coraggio e l’impegno trasparente di alcuni servitori onesti e puliti dello Stato.
Quella legge che avevamo ottenuto nel 1996 con un milione di firme e che era costata la vita di Pio La Torre, aveva intuito l’importanza di colpire le mafie nel cuore dei loro interessi e nello stesso tempo poneva un segno forte di riscatto e di liberazione sul territorio. Si trattava di trasformare il frutto del sopruso e della prepotenza in bene posto a servizio della comunità: l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie.
Oggi più che mai abbiamo contezza dell’importanza di quell’intuizione e per questo già nel 2006 chiedevamo di renderla più efficace liberando i beni dalle ipoteche bancarie, creando un’apposita agenzia per la gestione dei beni stessi e la diffusione a livello europeo dello stesso dispositivo. Abbiamo sperimentato quanto sia importante non lasciare mai soli i testimoni di giustizia e i familiari delle vittime innocenti di mafia, abbiamo compreso quanto sia fondamentale preservare la memoria per non regalare al malaffare pezzi preziosi della storia delle nostre comunità, sappiamo che è illusorio sconfiggere le mafie se non si prosciuga il contesto grigio di mentalità, di connivenze, di contiguità con la malavita. Questi obiettivi possono essere raggiunti solo con lo sforzo convergente di tutti: politica, informazione, economia… Ogni giorno ci convinciamo di più che una seria politica del lavoro è una politica contro le mafie, che il rispetto dei diritti di tutte e di tutti restringe lo spazio delle mafie, politiche sociali attente alle persone sono politiche autenticamente antimafia. Sono queste le idee guida che si confronteranno per trovare maggiore forza nel cammino di liberazione del nostro Paese. Lo vediamo anche come un contributo alla lotta contro tutte le mafie del mondo che hanno trovato nutrimento e forza dal processo di globalizzazione e che prosperano anche grazie ai collegamenti transnazionali nelle più diverse attività malavitose. Si intrecciano i destini e anche le speranze che intendiamo rafforzare concretamente in questi giorni.
Responsabile area internazionale di Libera
Tonio Dell’Olio
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Lavoro e legalità per battere la mafia
Oltre 2000 persone si danno appuntamento a Roma in questi giorni per riflettere e fare il punto della situazione sull’impegno comune per radicare la cultura del rispetto delle regole. È la seconda edizione di Contromafie dopo quella che nel novembre 2006 si era conclusa con un manifesto che vede oggi alcuni obiettivi raggiunti e altre istanze ancora inadempiute.
Ci rendiamo conto oggi che, anche a fronte di alcuni indiscutibili successi, soprattutto da parte della magistratura e delle forze dell’ordine e dei passi in avanti che abbiamo compiuto verso una maggiore consapevolezza frutto dello sforzo educativo, ancora tanto c’è da fare. Noi come organizzazioni sociali ci siamo assunti l’impegno e la responsabilità di compiere ogni passo necessario nella direzione della giustizia ma siamo altrettanto coscienti che nulla sarà possibile realizzare senza il sostegno convinto della politica. A questa spetta il compito di recidere ogni filo sospetto e di produrre leggi efficaci e comportamenti corretti.
Quanto ci amareggia in questi giorni venire a conoscenza di interlocuzioni e patteggiamenti tra pezzi delle istituzioni ed esponenti della criminalità organizzata! Quanto ci indigna sapere che l’indolenza di alcuni, la disponibilità al compromesso di altri, la corruzione di altri ancora… hanno rischiato di vanificare il coraggio e l’impegno trasparente di alcuni servitori onesti e puliti dello Stato.
Quella legge che avevamo ottenuto nel 1996 con un milione di firme e che era costata la vita di Pio La Torre, aveva intuito l’importanza di colpire le mafie nel cuore dei loro interessi e nello stesso tempo poneva un segno forte di riscatto e di liberazione sul territorio. Si trattava di trasformare il frutto del sopruso e della prepotenza in bene posto a servizio della comunità: l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie.
Oggi più che mai abbiamo contezza dell’importanza di quell’intuizione e per questo già nel 2006 chiedevamo di renderla più efficace liberando i beni dalle ipoteche bancarie, creando un’apposita agenzia per la gestione dei beni stessi e la diffusione a livello europeo dello stesso dispositivo. Abbiamo sperimentato quanto sia importante non lasciare mai soli i testimoni di giustizia e i familiari delle vittime innocenti di mafia, abbiamo compreso quanto sia fondamentale preservare la memoria per non regalare al malaffare pezzi preziosi della storia delle nostre comunità, sappiamo che è illusorio sconfiggere le mafie se non si prosciuga il contesto grigio di mentalità, di connivenze, di contiguità con la malavita. Questi obiettivi possono essere raggiunti solo con lo sforzo convergente di tutti: politica, informazione, economia… Ogni giorno ci convinciamo di più che una seria politica del lavoro è una politica contro le mafie, che il rispetto dei diritti di tutte e di tutti restringe lo spazio delle mafie, politiche sociali attente alle persone sono politiche autenticamente antimafia. Sono queste le idee guida che si confronteranno per trovare maggiore forza nel cammino di liberazione del nostro Paese. Lo vediamo anche come un contributo alla lotta contro tutte le mafie del mondo che hanno trovato nutrimento e forza dal processo di globalizzazione e che prosperano anche grazie ai collegamenti transnazionali nelle più diverse attività malavitose. Si intrecciano i destini e anche le speranze che intendiamo rafforzare concretamente in questi giorni.
Responsabile area internazionale di Libera
Tonio Dell’Olio
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mercoledì 21 ottobre 2009
LA SCOPERTA DI TREMONTI
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LA SCOPERTA DI TREMONTI
di Galapagos
Su Il Foglio è stata ripubblicata ieri in prima pagina una lettera apparsa sul il manifesto martedì scorso. Il nostro lettore (a proposto delle previsioni economiche, dei guru e dei teorici che spesso ci ripensano) scriveva che sicuramente «giustificheranno domani la stabilità del lavoro così come oggi la flessibilità». Dopo sette giorni Giulio Tremonti, superministro dell'economia, sembra aver fatto sue quelle osservazioni e ci ha ripensato. Ieri, nel corso di un convegno ha sostenuto: «La mobilità non è un valore, il posto fisso è la base per progetti di vita». E ha incalzato: «In strutture sociali come la nostra il posto fisso» è «la base su cui si organizza il progetto di vita e la famiglia».
Per Luigi Angeletti, mega segretario della Uil, dimentico di aver aver siglato tutti i protocolli che favorivano la flessibilità, «Tremonti parla come un iscritto alla Uil». Guglielmo Epifani, invece, non lo ha iscritto al suo sindacato, ma si è limitato a un più «banale»: «Sulla mobilità chiedete un commento alla Confindustria». Che da sempre non brilla per coerenza. Ultimo esempio: la posizione sull'innalzamento dell'età pensionabile sulla quale a viale dell'Astronomia sono concordi. Salvo poi assistere a livello di singole imprese, ma nel complesso tantissime, a licenziamenti di massa. Espulsioni che riguardano in particolare i lavoratori più anziani (oltre i 50 anni) e le donne. Si potrebbe obiettare: è il profitto che lo impone, le imprese fanno quel che devono fare e, semmai, è lo stato che non provvede con un legislazione adeguata che garantisca ammortizzatori sociali e formazione permanente.
A questo punto la palla torna al governo: a Tremonti e al ministro Sacconi, su tutti. Per anni hanno sostenuto come la flessibilità - in tutte le sue forme - era propedeutica allo sviluppo, a contrastare la concorrenza globale. Il risultato è stato un impoverimento del lavoro, il ritorno al dominio del capitale sul lavoro. Senza contare che un lavoro ipersfruttato e sempre ricattabile ha accompagnato una esaltazione dei profitto a una compressione dei salari a livelli di sussistenza. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, esemplificato dalla crisi attuale. Il punto è che se solo alcuni paesi adottano forme di lavoro precario e flessibile, quei paesi vanno economicamente bene. Ma quando le precarizzazione e i bassi salari sono pratica comune, a rimetterci sono tutti. Perché - lo insegna anche l'economia liberista - non c'è equilibrio tra offerta di merci e domanda. E questo fa inevitabilmente esplodere la recessione. È quello che è accaduto negli ultimi anni: profitti crescenti, consumi calanti con il precipitare nella povertà (assoluta e relativa) di milioni di nuove persone.
Sicuramente si potrebbero bilanciare gli squilibri con un'intensa operazione di distribuzione del reddito sotto forma di maggior welfare. Ma anche questa ricetta semplice non è stata seguita. Anzi, con le privatizzazioni (perfino di monopoli naturali) si è data nuova linfa al profitto. Tremonti ci pensi. A meno che la sua vera intenzione non sia quella espressa dalla vignetta di Vauro.
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giovedì 8 ottobre 2009
I «no Api» e gli operai
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I «no Api» e gli operai
Zeno Leoni
Diritto alla salute e all’ambiente o diritto al lavoro? La raffineria di Falconara è il simbolo di un conflitto creato dal profitto e da un’industria arretrata, che inquina, fa ammalare e poi licenzia
Con l’annuncio della cassa integrazione per centoquaranta dipendenti fra turnisti e personale amministrativo e giornaliero, la raffineria Api di Falconara Marittima [Ancona] non è più solamente il simbolo di una battaglia ambientale, del grande male da sconfiggere. Da giovedì 30 settembre, le sorti di quell’eco-mostro italiano che avvelena il nostro habitat da oltre mezzo secolo, si incrocia nuovamente con la vita di molti uomini che ogni mattina si alzano per non essere inghiottiti da una becera «selezione naturale». E che di perdere il posto di lavoro, per quanto logorante esso sia, proprio non possono permetterselo. Così, a poche ore dalla decisione, gli operai si sono riversati in strada per bloccare il traffico, mentre lunedì scorso circa cento di loro si sono di nuovo mobilitati chiudendo l’accesso alla raffineria dalle quattro del mattino fino alle nove e trenta. L’azienda conta circa cinquecento dipendenti con un indotto di 2.000 persone: numeri che rendono l’idea dell’impatto. «E’ un momento difficile legato a basse performance», dice l’amministratore. «E’ colpa di chi ha impedito la costruzione delle due centrali termoelettriche, quelle avrebbero portato lavoro», gli fa eco qualche sindacalista scellerato.
La storia dell’Api comincia cinquantanove anni fa, nel 1950, quando l’impianto battezzato dal ministro dell’industria, Giuseppe Togni, è idoneo a produrre. E da quell’anno, come ricorda in tono celebrativo l’Api, è «un susseguirsi di ampliamenti territoriali». Si producono le nuove benzine Sprint 84/86 e Supersprint 92/94, oltre a distribuire Gpl e bitume. Oggi la raffineria è estesa su 70 ettari e raffina 3,9 milioni di tonnellate di greggio ogni anno grazie a 128 serbatoi. Il tutto corredato da una piattaforma fissa, a 16 chilometri dalla costa; isola con doppio attracco, a 4 chilometri; pontile connesso direttamente alla raffineria. Così la piovra estende sopra a Falconara i suoi tentacoli. Negli anni ‘80 e ‘90 sono i dirigenti territoriali dei Verdi a condurre una forte campagna di mobilitazione contro la centrale e il movimento riesce ad eleggere propri rappresentanti trascinati dall’onda della rabbia popolare. Un impegno pagato a caro prezzo, perché gli sgambetti sia da parte della segreteria nazionale che degli alleati negli enti locali non si contano. La svolta arriva il 25 agosto del ’99: l’esplosione di una pompa spinge Falconara e i comuni limitrofi sull’orlo di un’ecatombe, poi scongiurata. Il bilancio è di due lavoratori morti, centinaia di cittadini in fuga da due quartieri a ridosso della raffineria e dieci persone ricorse a cure mediche.
Comincia una sollevazione senza precedenti, che porta i cittadini a costituirsi parte civile e a ottenere il riconoscimento di parte lesa. Un altro punto di cesura, che ha il sapore di una nuova beffa, è il rinnovo nel 2003 della concessione all’Api, decisione shock decisa in anticipo di cinque anni [sarebbe dovuta avvenire nel 2008] da parte dell’assessore regionale ed esponente di
Rifondazione comunista. «Dal quel momento chiediamo, nel tavolo con i sindacati, di avviare un nuovo percorso – spiega Loris Calcina, dei Comitati di quartiere – che va verso l’energia alternativa, come Api Nòva fa da tempo nel sud Italia con l’eolico. Ci definirono utopistici, e così abbiamo perso sei anni». I test svolti da parte del fronte «no Api» sugli abitanti parlano di un aumento evidente degli attacchi al sistema linfatico, cioè leucemie. Nonostante il rinnovo dell’autorizzazione imponga norme di sicurezza più rigorose, Falconara assiste a una lunga serie di incidenti minori. Il più grave è nel 2007, quando la fuoriuscita in mare di olio combustibile porta al divieto di balneazione lungo il litorale. Un evento inedito. Per il prossimo lunedì, 12 ottobre, è fissato il primo sciopero annunciato, e gli operai incontreranno il sindaco Brandoni. Seguirà la mobilitazione del 19, la settimana successiva.
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I «no Api» e gli operai
Zeno Leoni
Diritto alla salute e all’ambiente o diritto al lavoro? La raffineria di Falconara è il simbolo di un conflitto creato dal profitto e da un’industria arretrata, che inquina, fa ammalare e poi licenzia
Con l’annuncio della cassa integrazione per centoquaranta dipendenti fra turnisti e personale amministrativo e giornaliero, la raffineria Api di Falconara Marittima [Ancona] non è più solamente il simbolo di una battaglia ambientale, del grande male da sconfiggere. Da giovedì 30 settembre, le sorti di quell’eco-mostro italiano che avvelena il nostro habitat da oltre mezzo secolo, si incrocia nuovamente con la vita di molti uomini che ogni mattina si alzano per non essere inghiottiti da una becera «selezione naturale». E che di perdere il posto di lavoro, per quanto logorante esso sia, proprio non possono permetterselo. Così, a poche ore dalla decisione, gli operai si sono riversati in strada per bloccare il traffico, mentre lunedì scorso circa cento di loro si sono di nuovo mobilitati chiudendo l’accesso alla raffineria dalle quattro del mattino fino alle nove e trenta. L’azienda conta circa cinquecento dipendenti con un indotto di 2.000 persone: numeri che rendono l’idea dell’impatto. «E’ un momento difficile legato a basse performance», dice l’amministratore. «E’ colpa di chi ha impedito la costruzione delle due centrali termoelettriche, quelle avrebbero portato lavoro», gli fa eco qualche sindacalista scellerato.
La storia dell’Api comincia cinquantanove anni fa, nel 1950, quando l’impianto battezzato dal ministro dell’industria, Giuseppe Togni, è idoneo a produrre. E da quell’anno, come ricorda in tono celebrativo l’Api, è «un susseguirsi di ampliamenti territoriali». Si producono le nuove benzine Sprint 84/86 e Supersprint 92/94, oltre a distribuire Gpl e bitume. Oggi la raffineria è estesa su 70 ettari e raffina 3,9 milioni di tonnellate di greggio ogni anno grazie a 128 serbatoi. Il tutto corredato da una piattaforma fissa, a 16 chilometri dalla costa; isola con doppio attracco, a 4 chilometri; pontile connesso direttamente alla raffineria. Così la piovra estende sopra a Falconara i suoi tentacoli. Negli anni ‘80 e ‘90 sono i dirigenti territoriali dei Verdi a condurre una forte campagna di mobilitazione contro la centrale e il movimento riesce ad eleggere propri rappresentanti trascinati dall’onda della rabbia popolare. Un impegno pagato a caro prezzo, perché gli sgambetti sia da parte della segreteria nazionale che degli alleati negli enti locali non si contano. La svolta arriva il 25 agosto del ’99: l’esplosione di una pompa spinge Falconara e i comuni limitrofi sull’orlo di un’ecatombe, poi scongiurata. Il bilancio è di due lavoratori morti, centinaia di cittadini in fuga da due quartieri a ridosso della raffineria e dieci persone ricorse a cure mediche.
Comincia una sollevazione senza precedenti, che porta i cittadini a costituirsi parte civile e a ottenere il riconoscimento di parte lesa. Un altro punto di cesura, che ha il sapore di una nuova beffa, è il rinnovo nel 2003 della concessione all’Api, decisione shock decisa in anticipo di cinque anni [sarebbe dovuta avvenire nel 2008] da parte dell’assessore regionale ed esponente di
Rifondazione comunista. «Dal quel momento chiediamo, nel tavolo con i sindacati, di avviare un nuovo percorso – spiega Loris Calcina, dei Comitati di quartiere – che va verso l’energia alternativa, come Api Nòva fa da tempo nel sud Italia con l’eolico. Ci definirono utopistici, e così abbiamo perso sei anni». I test svolti da parte del fronte «no Api» sugli abitanti parlano di un aumento evidente degli attacchi al sistema linfatico, cioè leucemie. Nonostante il rinnovo dell’autorizzazione imponga norme di sicurezza più rigorose, Falconara assiste a una lunga serie di incidenti minori. Il più grave è nel 2007, quando la fuoriuscita in mare di olio combustibile porta al divieto di balneazione lungo il litorale. Un evento inedito. Per il prossimo lunedì, 12 ottobre, è fissato il primo sciopero annunciato, e gli operai incontreranno il sindaco Brandoni. Seguirà la mobilitazione del 19, la settimana successiva.
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Domani sciopero generale dei metalmeccanici
venerdì 2 ottobre 2009
Boom dei disoccupati E Tremonti si butta sul sud
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Boom dei disoccupati E Tremonti si butta sul sud
Nuovi dati preoccupanti dal fronte della crisi. Ieri l'Inps ha diffuso le cifre relative alla richiesta di assegni di disoccupazione e alla cassa integrazione, conteggiate sull'ultimo anno. Ebbene, da inizio agosto 2008 a fine luglio 2009 le domande per la disoccupazione sono schizzate in alto, toccando quasi il milione (esattamente sono state 984.286): notevole anche l'incremento percentuale, pari a +52,2%. Molto pesanti i numeri relativi alla cassa integrazione: quella ordinaria è addirittura quadruplicata in un anno (+409,4% dall'1 settembre 2008 al 31 agosto 2009), mentre quella straordinaria è aumentata dell'86,7% (la media fa dunque +222,3%). Il presidente dell'Inps, Antonio Mastropasqua, come pure la maggioranza e il governo, leggono il lato positivo delle cifre: cioè il fatto che il trend starebbe comunque rallentando. L'opposizione sottolinea la gravità del momento e l'inadeguatezza degli interventi messi in campo dall'esecutivo, mentre la Cgil contesta la completezza dei dati, chiedendo all'Inps di pubblicarne altri: ad esempio quelli sui collaboratori.
Intanto ieri il ministro più «generoso» nel dichiarare è stato di gran lunga Giulio Tremonti: il titolare dell'Economia ha annunciato che il governo sta dando un'accelerata all'avvio della Banca del Sud, e che la sua regia sarà tenuta saldamente nelle mani di Palazzo Chigi. Quella che insomma era la Cassa del Mezzogiorno, per Tremonti «oggi può essere l'Agenzia a Palazzo Chigi o l'Istituto per lo sviluppo del Meridione». La raccolta sarà gestita dalle banche di credito cooperativo, sul modello del Crédit Agricole francese, e il governo agirà per fissare i criteri e le fiscalità di vantaggio. Proprio su quest'ultimo punto, il ministro ha detto che sta pensando di «abbattere la ritenuta fiscale sui depositi nelle banche che poi vengono reinvestiti nel territorio». Quanto all'iter della Banca ventura, Tremonti ha detto che «nei prossimi giorni sarà presentato il disegno di legge».
Tornando ai dati sulla disoccupazione, il presidente dell'Inps Mastropasqua offre un assist al governo quando afferma che «le risorse messe a disposizione per la cassa integrazione potrebbero essere addirittura 4 volte superiori al fabbisogno». E poi nota che comunque da luglio rallenta sia il trend delle domande di disoccupazione, che quello delle ore di cassa: se in un anno le prime sono cresciute del 52%, «nel luglio 2009 sono aumentate del 20% rispetto al luglio 2008. La stessa crescita frenata che abbiamo visto nelle richieste di cassa, da tre mesi in progressiva contrazione».
Altri numeri interessanti dal fronte Inps: l'isituto ha raggiunto un attivo di oltre 3,7 miliardi nel 2009, e nel 2010 prevede un risultato di esercizio positivo per 3 miliardi di euro e un avanzo finanziario superiore ai 4,5 miliardi. Nel 2010 gli aventi diritto alla pensione di anzianità saranno in aumento del 49% rispetto a quest'anno.
Più in generale, rispetto alla crisi, Tremonti spiega che «il tempo è stretto e quella che ci si prospetta non è l'età dell'oro». Secondo Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, «la crisi non è finita» e «la disoccupazione è un problema serio»: «In Italia è al 7,4% ma la Confindustria stima che ci sarà un peggioramento nei prossimi mesi - ha detto - Speriamo che nel 2010 possiamo arrivare a un 9,5%: noi insistiamo e chiediamo stanziamenti per gli ammortizzatori sociali e supporto alle imprese».
Il Pd, con Bersani e Treu, chiede più ammortizzatori sociali. La Cgil, con il segretario Fulvio Fammoni, dice che «finalmente emergono alcuni dei dati che da mesi chiediamo e che dimostrano quanto sia pesante la crisi». Secondo stime Cgil, «nell'intero 2009 la sola disoccupazione ordinaria raddoppierà rispetto al 2008». «In una lettera che abbiamo inviato a fine luglio al ministro del Lavoro e al Presidente dell'Inps - conclude - abbiamo chiesto: quante e quali realtà produttive raggiungeranno nei prossimi mesi il tetto massimo delle 52 settimane di cig ordinaria, i dati della disoccupazione con requisiti ridotti, quelli della gestione separata relativa ai collaboratori: conoscere in piena trasparenza lo stato delle cose è indispensabile. Un'ulteriore difficoltà di accesso ai dati non è comprensibile».
di Antonio Sciotto
INPS - Un milione di assegni: +52%. Via alla banca del Mezzogiorno
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Boom dei disoccupati E Tremonti si butta sul sud
Nuovi dati preoccupanti dal fronte della crisi. Ieri l'Inps ha diffuso le cifre relative alla richiesta di assegni di disoccupazione e alla cassa integrazione, conteggiate sull'ultimo anno. Ebbene, da inizio agosto 2008 a fine luglio 2009 le domande per la disoccupazione sono schizzate in alto, toccando quasi il milione (esattamente sono state 984.286): notevole anche l'incremento percentuale, pari a +52,2%. Molto pesanti i numeri relativi alla cassa integrazione: quella ordinaria è addirittura quadruplicata in un anno (+409,4% dall'1 settembre 2008 al 31 agosto 2009), mentre quella straordinaria è aumentata dell'86,7% (la media fa dunque +222,3%). Il presidente dell'Inps, Antonio Mastropasqua, come pure la maggioranza e il governo, leggono il lato positivo delle cifre: cioè il fatto che il trend starebbe comunque rallentando. L'opposizione sottolinea la gravità del momento e l'inadeguatezza degli interventi messi in campo dall'esecutivo, mentre la Cgil contesta la completezza dei dati, chiedendo all'Inps di pubblicarne altri: ad esempio quelli sui collaboratori.
Intanto ieri il ministro più «generoso» nel dichiarare è stato di gran lunga Giulio Tremonti: il titolare dell'Economia ha annunciato che il governo sta dando un'accelerata all'avvio della Banca del Sud, e che la sua regia sarà tenuta saldamente nelle mani di Palazzo Chigi. Quella che insomma era la Cassa del Mezzogiorno, per Tremonti «oggi può essere l'Agenzia a Palazzo Chigi o l'Istituto per lo sviluppo del Meridione». La raccolta sarà gestita dalle banche di credito cooperativo, sul modello del Crédit Agricole francese, e il governo agirà per fissare i criteri e le fiscalità di vantaggio. Proprio su quest'ultimo punto, il ministro ha detto che sta pensando di «abbattere la ritenuta fiscale sui depositi nelle banche che poi vengono reinvestiti nel territorio». Quanto all'iter della Banca ventura, Tremonti ha detto che «nei prossimi giorni sarà presentato il disegno di legge».
Tornando ai dati sulla disoccupazione, il presidente dell'Inps Mastropasqua offre un assist al governo quando afferma che «le risorse messe a disposizione per la cassa integrazione potrebbero essere addirittura 4 volte superiori al fabbisogno». E poi nota che comunque da luglio rallenta sia il trend delle domande di disoccupazione, che quello delle ore di cassa: se in un anno le prime sono cresciute del 52%, «nel luglio 2009 sono aumentate del 20% rispetto al luglio 2008. La stessa crescita frenata che abbiamo visto nelle richieste di cassa, da tre mesi in progressiva contrazione».
Altri numeri interessanti dal fronte Inps: l'isituto ha raggiunto un attivo di oltre 3,7 miliardi nel 2009, e nel 2010 prevede un risultato di esercizio positivo per 3 miliardi di euro e un avanzo finanziario superiore ai 4,5 miliardi. Nel 2010 gli aventi diritto alla pensione di anzianità saranno in aumento del 49% rispetto a quest'anno.
Più in generale, rispetto alla crisi, Tremonti spiega che «il tempo è stretto e quella che ci si prospetta non è l'età dell'oro». Secondo Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, «la crisi non è finita» e «la disoccupazione è un problema serio»: «In Italia è al 7,4% ma la Confindustria stima che ci sarà un peggioramento nei prossimi mesi - ha detto - Speriamo che nel 2010 possiamo arrivare a un 9,5%: noi insistiamo e chiediamo stanziamenti per gli ammortizzatori sociali e supporto alle imprese».
Il Pd, con Bersani e Treu, chiede più ammortizzatori sociali. La Cgil, con il segretario Fulvio Fammoni, dice che «finalmente emergono alcuni dei dati che da mesi chiediamo e che dimostrano quanto sia pesante la crisi». Secondo stime Cgil, «nell'intero 2009 la sola disoccupazione ordinaria raddoppierà rispetto al 2008». «In una lettera che abbiamo inviato a fine luglio al ministro del Lavoro e al Presidente dell'Inps - conclude - abbiamo chiesto: quante e quali realtà produttive raggiungeranno nei prossimi mesi il tetto massimo delle 52 settimane di cig ordinaria, i dati della disoccupazione con requisiti ridotti, quelli della gestione separata relativa ai collaboratori: conoscere in piena trasparenza lo stato delle cose è indispensabile. Un'ulteriore difficoltà di accesso ai dati non è comprensibile».
di Antonio Sciotto
INPS - Un milione di assegni: +52%. Via alla banca del Mezzogiorno
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giovedì 24 settembre 2009
L'agonia di Porto Marghera, Davide: per 52 giorni su un tetto e nessuno ci ha ascoltato
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L'agonia di Porto Marghera, Davide: per 52 giorni su un tetto e nessuno ci ha ascoltato
di Rinaldo Gianola
Il dramma della crisi a Porto Marghera, lo storico polo industriale, ha i volti e le voci degli operai che perdono il posto. Le loro storie non le sentirete mai al tg della sera.
«Mi chiamo Devis Sottile, ho 37 anni, sono sposato. Ho un figlio di pochi mesi. Vivo a San Donà di Piave. Da quindici anni lavoro come operaio alla Sirma, azienda che produce materiale refrattario, di proprietà del gruppo Gavioli. All’inizio eravamo 760, poi siamo dimagriti. Ma non abbiamo mai avuto grossi problemi. L’anno scorso il padrone ci diceva che voleva portare la società in Borsa. All’improvviso è arrivata la chiusura. Ci hanno sbattuto fuori. I più giovani sono i più colpiti, tra poche settimane non avrò nemmeno la cassa integrazione. Siamo stati per 52 giorni sul tetto della fabbrica, nessuno ci ha ascoltato. Noi lavoratori abbiamo creato una cooperativa con i nostri soldi per rilevare l’azienda. Ma non ci vogliono. La politica se ne frega, le istituzioni parlano parlano..... La sindaca del mio paese, Francesca Zaccariotto, una leghista, è stata eletta presidente della Provincia di Venezia e si è subito aumentata lo stipendio di 811 euro. Potrebbe essere la mia cassa integrazione. Mi sono iscritto a cinque agenzie interinali: due a Mestre, tre a San Donà. L’unica chiamata è stata per una sostituzione di pochi giorni a Ferragosto. Non so come andare avanti: forse vendo la casa, ma chi è interessato se ne approfitta. Non è giusto. La sera, a tavola, non so cosa dire a mia moglie».
«Sono Davide Stoppa, ho 33 anni. Ho moglie e un figlio di 19 mesi. Vivo a Santa Maria di Sala. Lavoro alla Montefibre da dodici anni. Prima avevo fatto altri lavori, anche il falegname e l’autista. Mi piace lavorare in fabbrica, stare con i miei compagni, siamo 280, moltissimi sotto i 40 anni. I giovani, gli interinali sono già stati cacciati. Il proprietario, il gruppo Orlandi, non vuole più rispettare i patti sottoscritti, si vuole liberare di noi. E pensare che il piano industriale prevedeva lo sviluppo delle fibre al carbonio, ritenuto strategico dal governo per l’industria italiana. Come si fa a credere a questi imprenditori, un giorno firmano un accordo e il giorno dopo se ne vanno? Non c’è più rispetto per i lavoratori. Se c’è la crisi affrontiamola insieme, ma non si può lasciare a casa la gente senza spiegazioni. La crisi serve per fare un’altra pulizia. A Marghera i padroni sognano di chiudere le fabbriche e di fare speculazioni: palazzi, fiere, festival. Oggi non si trova neanche un posto di lavoro, chi lo perde non sa dove sbattere la testa. Meno male che mia moglie fa l’impiegata. Io sto a casa e mi sento in colpa. Dovrei lavorare, mantenere la famiglia e sono qui in cassa integrazione. Finchè dura».
Sono ventimila quelli che hanno perso il lavoro nel Veneto dall’inizio dell’anno. Oltre 4mila posti sono stati cancellati tra Venezia e Mestre. Altri cinque-seimila occupati potrebbero presto restare a casa se a Marghera chiuderà il «ciclo del cloro» con ripercussioni occupazionali sul quadrilatero della chimica, che comprende anche Ravenna, Mantova, Ferrara. Già, «il ciclo del cloro».
Sembra di giocare al piccolo chimico, ma siamo, invece, nel mezzo di una delle più grandi concentrazioni industriali e operaie del paese. Marghera: una lunga storia di investimenti, successi e drammi, una storia unica, paradigma del contrasto perenne e irrisolto tra sviluppo industriale e ambiente, una storia di lotte e di democrazia. Quante crisi, quante battaglie ha vissuto Marghera? Ormai ce le siamo quasi dimenticate: la Montedison e l’Eni, Eugenio Cefis, Mario Schimberni, la «chimica mondiale» di Raul Gardini, il miracolo della plastica e il peso del petrolio, l’eroico operaio Gabriele Bortolozzo che portò in Tribunale gli avvelenatori, il Capannone delle assemblee operaie.
E oggi un’altra crisi, e ogni volta che c’è una crisi, una ristrutturazione, qui si perde un pezzo di industria, migliaia di posti. Quasi ci fosse un destino ineluttabile. È un’agonia lenta e dolorosa: i lavoratori resistono, i sindacati s’impegnano, ma, diciamo la verità, è come se fossero abbandonati, isolati. Lungo il Ponte della libertà, che accompagna il viaggiatore verso la città più bella del mondo, bisogna voltare lo sguardo giù verso il mare, la laguna. Qui si consuma uno dei tanti drammi sociali dell’autunno italiano.
«Vuoi sapere come va?» interroga Sergio Chiloiro, il segretario della Camera del lavoro, piegato a leggere la lista aggiornata delle aziende che chiudono o in crisi. «Ecco come va: qui un tempo lavoravano 50mila persone, oggi sono 13-14mila. Sono stati chiusi interi settori industriali, dal caprolattame alla Dow Chemical, è stata ridimensionata la Solvay, ci siamo seduti a tutti i tavoli, abbiamo firmato accordi, gestito esuberi e ristrutturazioni. Ma non basta mai. Non basta perchè non è mai stata detta la parola definitiva da parte del governo a una domanda: Marghera deve restare un luogo d’industria e di lavoro oppure puntiamo su alberghi, barche e servizi? Noi pensiamo che Marghera deve avere un futuro industriale, per il bene di quest’area e del Paese».
La situazione oggi è più grave del passato perchè mentre una volta i lavoratori usciti da un’azienda venivano ricollocati in un’altra impresa di Marghera, oggi questo “salvataggio” non è possibile. Non si investe più, nessuno ci mette un soldo anche se si potrebbero fare affari. L’Eni, il maggior protagonista, vorrebbe rinunciare alla chimica che pesa sui conti e necessita di investimenti, il governo non riesce a orientarne le scelte. Nel recinto di Marghera c’è il porto, lavorano ancora la Fincantieri (cantieristica) e l’Alcoa (alluminio), c’è l’energia, restano un po’ di meccanica e indotto. «Manca un piano di sviluppo, il governo e la politica si dividono e oscillano tra l’abbandono e la difesa di Marghera a giorni alterni, l’ultimo progetto serio è stato “Industria 2000” di Bersani» commenta il sindacalista dei chimici Riccardo Colletti, 45 anni, che lamenta «la mancanza di credibilità degli imprenditori: all’Unindustria eleggeranno uno delle agenzie interinali e prima c’era un albergatore...».
Ci sono casi aziendali incredibili. Non solo i fatti più noti della Sirma, della Montefibre o del commissariamento della Vinyl che potrebbe tornare in mano al trevigiano Sartor o finire al bolognese Francesco Bortolini. Loredana De Checchi della Cgil racconta della «Centro Pulitura Metalli, 48 dipendenti: il proprietario annuncia la chiusura prima dell’estate, ci sono le condizioni per la cassa integrazione, ma l’azienda si dimentica di comunicare lo stato di crisi. Arriva settembre, i lavoratori sono convinti di avere la cig, ma invece restano senza reddito». Intanto pontificano il governatore ex Publitalia, Galan, e il ministro Brunetta che sognerebbe la poltrona di sindaco, anche se non lo sopporta nessuno da queste parti. Mentre Marghera affonda e la disperazione colpisce migliaia di famiglie, circolano idee “geniali” come quella di trasformare il polo chimico in zona residenziale, alberghiera, con una fiera della nautica (d’altra parte qui costruirono il Moro di Venezia, illusione galleggiante dei Ferruzzi). Ovviamente ci vuole una bella bonifica, magari con fondi pubblici. Sembra di risentire l’ex ministro delle Partecipazioni statali, Gianni De Michelis, il re delle discoteche, che voleva far attraversare Venezia da metropolitane sopraelevate. In laguna dicono che De Michelis sia diventato consulente di Brunetta. Ora è tutto più chiaro.
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L'agonia di Porto Marghera, Davide: per 52 giorni su un tetto e nessuno ci ha ascoltato
di Rinaldo Gianola
Il dramma della crisi a Porto Marghera, lo storico polo industriale, ha i volti e le voci degli operai che perdono il posto. Le loro storie non le sentirete mai al tg della sera.
«Mi chiamo Devis Sottile, ho 37 anni, sono sposato. Ho un figlio di pochi mesi. Vivo a San Donà di Piave. Da quindici anni lavoro come operaio alla Sirma, azienda che produce materiale refrattario, di proprietà del gruppo Gavioli. All’inizio eravamo 760, poi siamo dimagriti. Ma non abbiamo mai avuto grossi problemi. L’anno scorso il padrone ci diceva che voleva portare la società in Borsa. All’improvviso è arrivata la chiusura. Ci hanno sbattuto fuori. I più giovani sono i più colpiti, tra poche settimane non avrò nemmeno la cassa integrazione. Siamo stati per 52 giorni sul tetto della fabbrica, nessuno ci ha ascoltato. Noi lavoratori abbiamo creato una cooperativa con i nostri soldi per rilevare l’azienda. Ma non ci vogliono. La politica se ne frega, le istituzioni parlano parlano..... La sindaca del mio paese, Francesca Zaccariotto, una leghista, è stata eletta presidente della Provincia di Venezia e si è subito aumentata lo stipendio di 811 euro. Potrebbe essere la mia cassa integrazione. Mi sono iscritto a cinque agenzie interinali: due a Mestre, tre a San Donà. L’unica chiamata è stata per una sostituzione di pochi giorni a Ferragosto. Non so come andare avanti: forse vendo la casa, ma chi è interessato se ne approfitta. Non è giusto. La sera, a tavola, non so cosa dire a mia moglie».
«Sono Davide Stoppa, ho 33 anni. Ho moglie e un figlio di 19 mesi. Vivo a Santa Maria di Sala. Lavoro alla Montefibre da dodici anni. Prima avevo fatto altri lavori, anche il falegname e l’autista. Mi piace lavorare in fabbrica, stare con i miei compagni, siamo 280, moltissimi sotto i 40 anni. I giovani, gli interinali sono già stati cacciati. Il proprietario, il gruppo Orlandi, non vuole più rispettare i patti sottoscritti, si vuole liberare di noi. E pensare che il piano industriale prevedeva lo sviluppo delle fibre al carbonio, ritenuto strategico dal governo per l’industria italiana. Come si fa a credere a questi imprenditori, un giorno firmano un accordo e il giorno dopo se ne vanno? Non c’è più rispetto per i lavoratori. Se c’è la crisi affrontiamola insieme, ma non si può lasciare a casa la gente senza spiegazioni. La crisi serve per fare un’altra pulizia. A Marghera i padroni sognano di chiudere le fabbriche e di fare speculazioni: palazzi, fiere, festival. Oggi non si trova neanche un posto di lavoro, chi lo perde non sa dove sbattere la testa. Meno male che mia moglie fa l’impiegata. Io sto a casa e mi sento in colpa. Dovrei lavorare, mantenere la famiglia e sono qui in cassa integrazione. Finchè dura».
Sono ventimila quelli che hanno perso il lavoro nel Veneto dall’inizio dell’anno. Oltre 4mila posti sono stati cancellati tra Venezia e Mestre. Altri cinque-seimila occupati potrebbero presto restare a casa se a Marghera chiuderà il «ciclo del cloro» con ripercussioni occupazionali sul quadrilatero della chimica, che comprende anche Ravenna, Mantova, Ferrara. Già, «il ciclo del cloro».
Sembra di giocare al piccolo chimico, ma siamo, invece, nel mezzo di una delle più grandi concentrazioni industriali e operaie del paese. Marghera: una lunga storia di investimenti, successi e drammi, una storia unica, paradigma del contrasto perenne e irrisolto tra sviluppo industriale e ambiente, una storia di lotte e di democrazia. Quante crisi, quante battaglie ha vissuto Marghera? Ormai ce le siamo quasi dimenticate: la Montedison e l’Eni, Eugenio Cefis, Mario Schimberni, la «chimica mondiale» di Raul Gardini, il miracolo della plastica e il peso del petrolio, l’eroico operaio Gabriele Bortolozzo che portò in Tribunale gli avvelenatori, il Capannone delle assemblee operaie.
E oggi un’altra crisi, e ogni volta che c’è una crisi, una ristrutturazione, qui si perde un pezzo di industria, migliaia di posti. Quasi ci fosse un destino ineluttabile. È un’agonia lenta e dolorosa: i lavoratori resistono, i sindacati s’impegnano, ma, diciamo la verità, è come se fossero abbandonati, isolati. Lungo il Ponte della libertà, che accompagna il viaggiatore verso la città più bella del mondo, bisogna voltare lo sguardo giù verso il mare, la laguna. Qui si consuma uno dei tanti drammi sociali dell’autunno italiano.
«Vuoi sapere come va?» interroga Sergio Chiloiro, il segretario della Camera del lavoro, piegato a leggere la lista aggiornata delle aziende che chiudono o in crisi. «Ecco come va: qui un tempo lavoravano 50mila persone, oggi sono 13-14mila. Sono stati chiusi interi settori industriali, dal caprolattame alla Dow Chemical, è stata ridimensionata la Solvay, ci siamo seduti a tutti i tavoli, abbiamo firmato accordi, gestito esuberi e ristrutturazioni. Ma non basta mai. Non basta perchè non è mai stata detta la parola definitiva da parte del governo a una domanda: Marghera deve restare un luogo d’industria e di lavoro oppure puntiamo su alberghi, barche e servizi? Noi pensiamo che Marghera deve avere un futuro industriale, per il bene di quest’area e del Paese».
La situazione oggi è più grave del passato perchè mentre una volta i lavoratori usciti da un’azienda venivano ricollocati in un’altra impresa di Marghera, oggi questo “salvataggio” non è possibile. Non si investe più, nessuno ci mette un soldo anche se si potrebbero fare affari. L’Eni, il maggior protagonista, vorrebbe rinunciare alla chimica che pesa sui conti e necessita di investimenti, il governo non riesce a orientarne le scelte. Nel recinto di Marghera c’è il porto, lavorano ancora la Fincantieri (cantieristica) e l’Alcoa (alluminio), c’è l’energia, restano un po’ di meccanica e indotto. «Manca un piano di sviluppo, il governo e la politica si dividono e oscillano tra l’abbandono e la difesa di Marghera a giorni alterni, l’ultimo progetto serio è stato “Industria 2000” di Bersani» commenta il sindacalista dei chimici Riccardo Colletti, 45 anni, che lamenta «la mancanza di credibilità degli imprenditori: all’Unindustria eleggeranno uno delle agenzie interinali e prima c’era un albergatore...».
Ci sono casi aziendali incredibili. Non solo i fatti più noti della Sirma, della Montefibre o del commissariamento della Vinyl che potrebbe tornare in mano al trevigiano Sartor o finire al bolognese Francesco Bortolini. Loredana De Checchi della Cgil racconta della «Centro Pulitura Metalli, 48 dipendenti: il proprietario annuncia la chiusura prima dell’estate, ci sono le condizioni per la cassa integrazione, ma l’azienda si dimentica di comunicare lo stato di crisi. Arriva settembre, i lavoratori sono convinti di avere la cig, ma invece restano senza reddito». Intanto pontificano il governatore ex Publitalia, Galan, e il ministro Brunetta che sognerebbe la poltrona di sindaco, anche se non lo sopporta nessuno da queste parti. Mentre Marghera affonda e la disperazione colpisce migliaia di famiglie, circolano idee “geniali” come quella di trasformare il polo chimico in zona residenziale, alberghiera, con una fiera della nautica (d’altra parte qui costruirono il Moro di Venezia, illusione galleggiante dei Ferruzzi). Ovviamente ci vuole una bella bonifica, magari con fondi pubblici. Sembra di risentire l’ex ministro delle Partecipazioni statali, Gianni De Michelis, il re delle discoteche, che voleva far attraversare Venezia da metropolitane sopraelevate. In laguna dicono che De Michelis sia diventato consulente di Brunetta. Ora è tutto più chiaro.
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martedì 22 settembre 2009
I precari italiani della scuola sfidano Vespa
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I precari italiani della scuola sfidano Vespa
di Coordinamento precari scuola*
Spettabile redazione di Porta a Porta,
e per conoscenza alle redazioni giornalistiche italiane.
Il segretario del PD Franceschini propone che la Rai, per ottemperare al suo ruolo di servizio pubblico, dedichi una puntata ai problemi della scuola facendo parlare i lavoratori precari che operano nel settore della Pubblica Istruzione.
http://www.unita.it/news/italia/88526/franceschini_su_porta_a_porta_perch_non_dare_lo_stesso_tempo_ai_precari (oppure http://tinyurl.com/precari-2porta )
Chiediamo che uno o più precari, individuati dal Coordinamento Precari Scuola, siano invitati ad una vostra prossima trasmissione accettando qualsiasi tipo di contradditorio sul tema del precariato scolastico e della qualità della scuola. Certi della vostra indipendenza dalle pressioni politiche, della vostra correttezza, della necessità giornalistica di dare voce e visibilità alla parte più debole della società, restiamo in attesa di un vostro invito.
*FORUM COORDINAMENTO PRECARI SCUOLA
BLOG COORDINAMENTO PRECARI SCUOLA
GRUPPO FACEBOOK COORDINAMENTO PRECARI SCUOLA
MAIL COORDINAMENTO PRECARI SCUOLA
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I precari italiani della scuola sfidano Vespa
di Coordinamento precari scuola*
Spettabile redazione di Porta a Porta,
e per conoscenza alle redazioni giornalistiche italiane.
Il segretario del PD Franceschini propone che la Rai, per ottemperare al suo ruolo di servizio pubblico, dedichi una puntata ai problemi della scuola facendo parlare i lavoratori precari che operano nel settore della Pubblica Istruzione.
http://www.unita.it/news/italia/88526/franceschini_su_porta_a_porta_perch_non_dare_lo_stesso_tempo_ai_precari (oppure http://tinyurl.com/precari-2porta )
Chiediamo che uno o più precari, individuati dal Coordinamento Precari Scuola, siano invitati ad una vostra prossima trasmissione accettando qualsiasi tipo di contradditorio sul tema del precariato scolastico e della qualità della scuola. Certi della vostra indipendenza dalle pressioni politiche, della vostra correttezza, della necessità giornalistica di dare voce e visibilità alla parte più debole della società, restiamo in attesa di un vostro invito.
*FORUM COORDINAMENTO PRECARI SCUOLA
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Le tre carte di Gelmini
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Le tre carte di Gelmini
Sul finanziamento agli atenei ‘virtuosi’ il ministero fa «il gioco delle tre carte». E’ quanto denuncia l’Unione degli Universitari sottolineando che «il 29 luglio il ministero ha comunicato i risultati delle valutazioni del ‘merito’ degli Atenei per l’attribuzione di una parte del Fondo di Finanziamento Ordinario, pari al 7 per cento del Ffo del 2008. La graduatoria degli Atenei più virtuosi è stata pubblicizzata dal Ministero come una ‘grande operazione di merito e trasparenza’». «Abbiamo ricostruito la classifica dai dati ministeriali – denuncia l’Udu – peccato che il ‘merito’ decantato dalla Gelmini si trasformi in una bufala per moltissimi Atenei d’Italia».
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Le tre carte di Gelmini
Sul finanziamento agli atenei ‘virtuosi’ il ministero fa «il gioco delle tre carte». E’ quanto denuncia l’Unione degli Universitari sottolineando che «il 29 luglio il ministero ha comunicato i risultati delle valutazioni del ‘merito’ degli Atenei per l’attribuzione di una parte del Fondo di Finanziamento Ordinario, pari al 7 per cento del Ffo del 2008. La graduatoria degli Atenei più virtuosi è stata pubblicizzata dal Ministero come una ‘grande operazione di merito e trasparenza’». «Abbiamo ricostruito la classifica dai dati ministeriali – denuncia l’Udu – peccato che il ‘merito’ decantato dalla Gelmini si trasformi in una bufala per moltissimi Atenei d’Italia».
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sabato 19 settembre 2009
Brescia, campi annaffiati con il latte
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Brescia, campi annaffiati con il latte.
Per protesta
Detto fatto.
Con alcune autobotti solitamente utilizzate per i liquami, gli agricoltori della Copagri hanno gettato nei campi antistanti il caseificio Ambrosi, circa 200 mila litri di latte.
Una protesta - ha spiegato il referente nazionale Roberto Cavaliere - attuata perchè «in questo momento produrre il latte costa 48 centesimi al litro e ci viene pagato invece 27 centesimi al litro».
Nei prossimi giorni verranno attuate iniziative di distribuzione gratuita del latte.
Ma non finisce qui. Una nuova iniziativa è all'orizzonte: "Martedì prossimo - sottolinea Cavaliere - per la prima volta nella storia d'Europa produttori italiani e di altre nazioni bloccheranno tutte le frontiere d'Italia».
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venerdì 18 settembre 2009
Il lavoro che cambia. L'indagine sull'occupazione
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Il lavoro che cambia. L'indagine sull'occupazione
di Bruno Ugolinitutti
«Il lavoro che cambia», era il titolo di un inchiesta promossa sei anni fa dai Democratici di sinistra. Che cosa è successo nel frattempo di fronte ad una crisi che scuote gli apparati produttivi? Come sarà il mondo del lavoro dopo la crisi? Le risposte le sta dando una seconda inchiesta, promossa questa volta dal Partito Democratico, in collaborazione con i giovani democratici, nonché con «l’Unità» e «Europa». Il titolo è rimasto quello di sei anni fa. È stata lanciata sui siti dei due quotidiani con un annuncio firmato da Cesare Damiano e Dario Franceschini. Sempre nei due siti i lettori sono invitati a compilare un questionario, redatto con il professor Mimmo Carrieri (coordinatore della ricerca). I risultati saranno analizzati e sintetizzati dalla SWG di Trieste. È stato formato un gruppo di lavoro di cui fa parte Cesare Damiano (oggi capogruppo Pd della Commissione Lavoro alla Camera). Il questionario è diviso in cinque sezioni: il profilo socio-anagrafico e situazione familiare, la situazione occupazionale, aspetti della condizione di lavoro, valutazioni e prospettive, problemi sociali e politici.
Non ci saranno solo i questionari compilati on line. A questi si sommeranno quelli cartacei distribuiti nel corso delle principali feste del Partito Democratico a cominciare da quella dedicata al lavoro, e in corso a Modena. Il materiale raccolto e analizzato confluirà, nella primavera del 2010, sempre a Modena, in un’iniziativa nazionale dedicata al tema del lavoro.
Nell’indagine di sei anni fa, spiega Damiano, erano emersi, attraverso 23 mila questionari, alcuni dati salienti. Ad esempio sulla condizione salariale, con la denuncia di buste paga mediamente pari a mille euro al mese. Nonché sul fatto che il 20% delle famiglie non ce la facevano ad arrivavano alla fine del mese. Un altro elemento riguardò la scelta della flessibilità che quando durava a lungo diventava precarietà. Non scaturiva dalle risposte dei questionari, osserva Damiano, una percezione tutta negativa sulla qualità presente in quel tipo di lavori. Ad essi però non corrispondeva una retribuzione adeguata e la certezza di poter trasformare la flessibilità in lavoro stabile. Tutto questo spinse, sottolinea ancora Damiano, ad avviare una stagione legislativa capace di affrontare tali tematiche. Così con la proposta (elaborata insieme a Tiziano Treu) di una carta dei diritti dei lavoratori, fino alla promozione di alcuni primi interventi di legge.
Resta il fatto che oggi quella fotografia costruita nel 2003 presenta aspetti deteriorati. Che cosa potrebbe scaturire dai nuovi questionari? «Intanto c’è da osservare che il mondo del lavoro paga in modo differenziato la crisi, anche se tutti vengono toccati. I primi ad essere colpiti sono coloro che hanno un lavoro a termine. Vengono lasciati a casa i lavoratori a progetto, gli interinali. L’ultima rivelazione parla di 100mila rapporti di lavoro interinali persi: sono il 30 per cento di quella forma di lavoro. Pagano i precari della pubblica amministrazione, basta vedere che cosa succede nella scuola».
Eppure il governo afferma di non voler abbandonare nessuno…«Parla così e poi si fa promotore di licenziamenti di massa, senza protezione. Del resto paga la crisi anche il mondo del lavoro protetto perché il ricorso alla cassa integrazione porta la retribuzione del lavoro stabile da una media di 1200 euro mensili (per un lavoratore con oltre 30 anni di lavoro) a 800 euro al mese».
La nuova indagine, insomma, servirà ad aprire meglio gli occhi su una realtà in movimento. Sarà anche un modo per smentire coloro che vedono il Pd non adeguatamente interessato al mondo del lavoro? «Siamo l’unico partito» risponde Damiano «che mette in campo un’iniziativa del genere. Il lavoro soffre di un oscuramento, dovuto anche a 30 anni di liberismo che hanno messo sull’altare la finanza, il mercato libero e selvaggio, e hanno mandato nella polvere la manifattura e il lavoro. Noi cerchiamo di aprire dei varchi e credo che un partito come il Pd debba avere profonde radici popolari e quindi nel mondo del lavoro. L’inchiesta e la Conferenza possono essere uno strumento importante».
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Torino, processo Thyssenkrupp: in aula il sindaco Chiamparino
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Torino, processo Thyssenkrupp: in aula il sindaco Chiamparino
Dopo la Regione Piemonte, ieri, è toccato oggi al sindaco Sergio Chiamparino spiegare in udienza le ragioni della costituzione di parte civile al processo Thyssenkrupp del Comune di Torino. «Abbiamo subito un danno morale – ha spiegato il sindaco – perché è stata lesa la sicurezza sul lavoro che è uno dei fondamenti della costituzione morale della nostra città». Il Comune di Torino, diversamente dalla Regione Piemonte che ha quantificato il danno in 180 mila euro, non ha indicato una cifra, ma ha sottolineato che l’eventuale risarcimento sarà devoluto a borse di studio sulla sicurezza sul lavoro. Il sindaco di Torino ha anche ricordato un incontro con l’amministratore delegato della Thyssenkrupp, e principale imputato in questo processo, Harald Espenhan, avvenuto intorno al 2002-2003 e relativo all’eventuale riorganizzazione dello stabilimento di corso Regina, e finalizzato al mantenimento delle attività a Torino. I contatti furono poi superati dalla decisione dell’azienda di trasferire l’attività a Terni, dove le condizioni, e in particolare la bolletta energetica, erano più vantaggiose. Chiamparino ha anche precisato di aver svolto quel colloquio con l’aiuto di un interprete in quanto Espenhan a quel tempo non conosceva sufficientemente l’italiano, un argomento questo sollevato più volte dalla difesa per chiedere la traduzione degli atti. Commentando poi un documento seguestrato dagli inquirenti in una borsa di un dirigente dell’azienda siderurgica in cui si indacava la città di Torino come culla delle Br il sindaco l’ha definita «una visione o interessata e strumentale o molto strabica di quello che è successo».
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I lavoratori della Nortel mobilitati contro il licenziamento
I lavoratori della Nortel mobilitati contro il licenziamento
Sarah Di Nella
Sono 38 i lavoratori della multinazionale canadese Nortel, che a Roma e a Milano rischiano il licenziamento. Ma è solo l'inizio dello smantellamento dell'antenna italiana: il gigante delle telecomunicazioni amministrato da Ernst&Young sta vendendo i suoi pezzi al miglior offerente...
Dall’inizio di settembre, i lavoratori italiani di Nortel sono mobilitati contro il licenziamento di 38 persone. Al centro del conflitto lo studio Ernst & Young, designato dalla multinazionale canadese per guidare la procedura di fallimento in Europa. Nortel è da gennaio sotto la protezione della legge canadese su fallimenti, cosa che ha permesso al gigante delle telecomunicazioni – che conta 26 mila dipendenti nel mondo – di lanciare una procedura intracomunitaria di ristrutturazione delle sue 17 filiali europee. Un metodo inedito, permesso dalla direttiva europea 1346/2000 che autorizza una società a dirigere una procedura giudiziaria da un solo paese per l’insieme dell’Europa, in questo caso dalla Gran Bretagna.
A luglio, i lavoratori francesi di Nortel avevano scelto di spettacolarizzare la loro protesta per bucare lo schermo e farsi sentire: avevano piazzato bombole di gas nella loro fabbrica, minacciando di farla esplodere. Erano state ritirate all’apertura dei negoziati, 465 dipendenti sono stati poi licenziati il 31 luglio, ottenendo però un indennizzo supralegale di 7 mila euro a lavoratore e un interessamento ai prodotti delle cessioni di attività che dovrebbe andare dai 20 ai 40 mila euro a persona.
In Italia, i lavoratori stanno moltiplicando le proteste: sciopero a oltranza almeno fino al 22 settembre, stato di assemblea permanente e tre lavoratori in sciopero della fame – poi diventati tre «per le condizioni di salute che erano diventate preoccupanti», spiegano quelli di Nortel sul loro blog http://nortelitaliainlotta.blogspot.com – in via di Grotta Perfetta. Nonostante ciò, la Ernst & Young ha rifiutato ieri la mediazione del ministero del lavoro, l’incontro per ora è stato rinviato al 23 settembre. Una «decisione gravissima e irresponsabile», per la Fiom Cgil.
Sull’edificio di Grotta Perfetta ci sono appese le gigantogradie dei figli dei lavoratori, le stesse sono anche stampate sulle loro magliette, con la scritta «Ernst&Young e Nortel licenziano il nostro futuro».
«Siamo lavoratori altamente qualificati – scrivono i 38 a rischio licenziamento delle sedi di Roma e Milano, in una lettera aperta – ingegneri, progettisti e tecnici delle telecomunicazioni, che Ernst&Young, in qualità di amministratore, sta licenziando su due piedi senza indennità e senza tfr».
Lo scorso 16 settembre, in un incontro al ministro del lavoro, la Ernst&Young aveva fatto sapere di voler «licenziare i lavoratori, di vendere ‘a pezzi’ le attività che rimangono alla Nortel per ricavare più soldi possibile, e di liquidare tutto in Italia entro marzo 2010. Licenziare i 38 lavoratori, quindi, non servirebbe a salvare l’azienda, ma è semplicemente una prima operazione di ‘ripulitura’ per vendere le attività facendo più profitti e chiudere comunque l’azienda tra qualche mese», spiega la Fiom Cgil.
Ernst&Young ha quindi respinto la proposta di usare la cassa integrazione e ha fatto sapere che non ha nessuna intenzione di presentarsi alla convocazione del ministero dello sviluppo economico, il 22 settembre.
«L’atteggiamento di Ernst& Young è gravissimo. L’Italia non è un paese a sovranità limitata – ha dichiarato Roberta Turi della segreteria Fiom Cgil di Roma – Ernst & Young rifiuta qualsiasi proposta alternativa al suo disegno perché a questa multinazionale non interessa il mantenimento dell’attività produttiva e dell’occupazione, l’unico suo obiettivo è di intascare più soldi possibili a discapito di chi lavora e che rappresenta la vera ricchezza di Nortel. Chiediamo al Ministero dello Sviluppo Economico e al Governo, di intervenire in maniera decisa su chi, in un momento di crisi come questo, vuole speculare sulla pelle di chi lavora, utilizzando risorse della collettività».
Il 22 settembre, quelli della Nortel hanno convocato un presidio dalle 13 davanti al ministero dello sviluppo economico, in via Molise. Stasera invece è previsto un loro intervento dal palco della festa della Cgil romana, alle 18 a Caracalla.
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mercoledì 16 settembre 2009
IMPREGILO : annuncia l'apertura a gennaio dei cantieri del Ponte
Impregilo annuncia l'apertura
a gennaio dei cantieri del Ponte
A gennaio 2010 partiranno i lavori del Ponte: dopo l’annuncio di Anas e governo arriva quello dell’impresa vincitrice. Ma l’avvio non riguarda il cantiere principale – di cui ancora non esiste il progetto definitivo – ma quelli preliminari. «Come realizzare una scala esterna per una casa che ancora non c’è». Nel frattempo, Impregilo lamenta l’eccesso di burocrazia in Italia. E tace del suo imbarazzante curriculum, fatto di autostrade mai finite in Calabria, smaltimento illegale di rifiuti in Toscana, ecoballe campane… Agli annunci dei politici ed ai proclami dell’Anas non crede più nessuno. Ma adesso parla Alberto Rubegni, amministratore delegato di Impregilo: «Tra pochi mesi iniziamo il lavori del Ponte». Più esattamente i «cantieri preliminari», cioè i lavori a terra annunciati per gennaio. Si tratta del delirio di strade e ferrovie che stravolgeranno l’area urbana dello Stretto, e che risulteranno perfettamente inutili fino al completamento del Ponte. Al momento, tuttavia, non è stato neanche completato il progetto definitivo. «E se dovesse essere valutato come inattuabile, a cosa saranno servite opere che si giustificano solo ed esclusivamente in funzione del Ponte?», si chiede Guido Signorino, docente di economia, uno dei massimi esperti dei conti della mega-infrastruttura. «Cosa ne sarebbe di lavori frettolosamente realizzati con un anticipo di 6-7 anni? È come realizzare una scala esterna per una casa che non c’è. Insomma, una follia, che potrebbe finire col costituire un danno erariale di proporzioni gigantesche».
Alle strutture secondarie, si affiancano le «opere compensative»: un fiume di soldi finalizzato teoricamente a ripagare dei danni sociali ed ambientali dei cantieri, in pratica a «comprare» il territorio e sopirne le proteste, l’ultima delle quali ha portato inaspettatamente in piazza a
Messina 8 mila manifestanti.
«Il recupero del fronte-mare, lo spostamento della stazione, la metropolitana del mare, eccetera non hanno alcuna connessione ‘tecnica’ col
Ponte e servono alla città di Messina non ‘a causa’ del ponte, ma ‘indipendentemente’ da esso; meglio ancora: ‘invece’ del Ponte», dice ancora Signorino. «Considerando il prezzo che la città ha pagato alla sua funzione di snodo per l’attraversamento dello Stretto, la ‘compensazione’ è dovuta per la funzione svolta nell’ultimo cinquantennio a servizio del sistema nazionale dei trasporti, non per la morte civile che le si vuole regalare in omaggio alla realizzazione di un’opera faraonica quanto inutile».
Come molte imprese italiane, Impregilo ama sputare nel piatto in cui mangia. Vive della rendita delle commesse statali, ma si lamenta dell’«eccesso di burocrazia». Secondo Rubegni, ci sarebbe «più certezza dei diritti» all’estero, dove la società di Sesto San Giovanni ha ottenuto l’appalto per l’allargamento del Canale di Panama, un contratto da 3 miliardi di dollari, ed è in corsa per un dissalatore a Dubai ed uno in Arabia Saudita, finanziato coi petrodollari della famiglia reale.
Eppure in Italia la società non se la passa male: ha in tasca i contratti del Ponte, della Pedemontana Veneta, della Tem [Tangenziali Esterne di Milano] e probabilmente riuscirà a strappare ancora qualcosa dall’Alta Velocità, altra vicenda di cantieri eterni. Forse, quando parlano di «eccesso di burocrazia», i dirigenti Impregilo pensano ai provvedimenti della magistratura nelle vicende campane, tra ecoballe ed inceneritori; o il cantiere lumaca della Salerno – Reggio Calabria, avviato nel 1997, perennemente infiltrato dalle ‘ndrine storiche del reggino e segnato da sette inchieste giudiziarie; le polemiche seguite al crollo dell’ospedale dell’Aquila; la condanna [in primo grado] di Rubegni per «smaltimento
illecito di rifiuti» durante i lavori di costruzione della tratta ferroviaria dell’Alta velocità Firenze-Bologna; per finire con la meno nota vicenda della Milano-Genova, il cui terzo valico è stato lanciato nell’ottobre 1991 come ramo secondario dell’Alta velocità e che nel 2009 è ancora fermo per un contenzioso tra Impregilo e Ferrovie. Un curriculum imbarazzante di cui qualcuno, ad esempio Anas, dovrebbe chiedere conto. Ma non accadrà nulla del genere, anzi proseguirà la strategia delle «mucche da mungere», il neo-interventismo statale finalizzato alla socializzazione delle perdite ed alla costruzione di partnership pubblico-privato, utili a portare profitto a pochi contractors, a prescindere da tutto e tutti, a cominciare dai movimenti accusati di miopia ed egoismo ed invece al momento unica forma di opposizione allo sciacallaggio di poche aziende.
Antonello Mangano www.terrelibere.it
AGGIORNAMENTO
L'Europa sta per cancellare i fondi per il ponte di >Messina , Buttati 250 milioni di euro
L'Europa sta per cancellare i fondi per il ponte di Messina ,
Buttati 250 milioni di euro
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http://cipiri.blogspot.it/2014/03/ponte-sullo-stretto-di-messina-12.html
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1,2 miliardi per non costruirlo
Il Ponte sullo Stretto: 1,2 miliardi per non costruirlo.
Grazie a Silvio Berlusconi .
Lo Stato dovrà spendere più di un miliardo di euro per non realizzare il Ponte sullo Stretto...
Il fautore della più grave regressione antropologica, culturale, sociale, economica e legale della storia Italiana
Un giorno dovremo vergognarci con i nostri figli di aver messo al potere per 12 anni e 4 governi
un evasore fiscale frequentatore di prostitute minorenni
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