Con la nascita della “cosa” landiniana, sembra tornata di attualità la “sinistra sindacale”, come leva per una sinistra diversa, basata sul primato del sociale sul politico. Forse non sarà inutile ricordare la prima esperienza in questo senso, la sinistra sindacale degli anni sessanta-settanta, per ricavare qualche utile indicazione su esperienze già fatte.
Nella prima metà degli anni sessanta, la situazione politica in Italia e Francia sembrò schiodarsi dall’immobilismo del quindicennio precedente. In Italia il Centro sinistra, in Francia la prima candidatura di Françoise Mitterrand sostenuto da comunisti e socialisti insieme, profilarono una alternativa all’egemonia di centro destra vigente sino a quel momento.
Tuttavia, in Francia Mitterrand non vinse (anche se il 45% del secondo turno fu un notevole successo) ed in Italia il Centro-sinistra andò rapidamente perdendo la sua primitiva carica riformista. D’altra parte, i condizionamenti internazionali del mondo diviso in due blocchi non si erano certo affievoliti, per cui l’ipotesi di una vittoria elettorale della sinistra appariva decisamente improbabile, per lo meno nel tempo politicamente prevedibile e, con essa,
anche un programma di trasformazione sociale.
Questa situazione di blocco istituzionale spinse settori della sinistra a cercare un’altra strada che non passasse per le istituzioni, ma attraverso le lotte sociali ed, in particolare, quelle sindacali. A farsene fautori, in Francia, furono intellettuali di formazione socialista ed un piccolo partito di estrema sinistra come il Psu di Michel Rocard, ma soprattutto l’ex confederazione sindacale cristiana (la Ctfc) che aveva mutato il nome in Cfdt.
Anche in Italia il troncone originario di derivazione socialista fu l’iniziatore, con il gruppo di sindacalisti del Psiup (Elio Giovannini, Gastone Sclavi, Antonio Lettieri, Giacinto Militello ecc.) che si erano riuniti sotto l’ala di Lelio Basso e di Vittorio Foa (e la rivista di Basso, “Problemi del Socialismo” ne fu, per un decennio, l’espressione). Alla corrente sindacale psiuppina (non tutta aderente all’indirizzo della sinistra bassiana), si affiancò anche la parte ingraiana della corrente comunista (Bruno Trentin, Renato Lattes, Sergio Garavini), talvolta supportata anche
dal gruppo dei “secchiani” milanesi.
Ma non fu la sola Cgil ad ospitare una sinistra interna, anche nella Cisl, sotto la suggestione della Cfdt, si formò una sinistra sindacale che ebbe nella Cisl di Pierre Carniti la sua roccaforte.
Le due sinistre furono le principali sostenitrici di una rapida unificazione delle tre centrali che, invece, si fermò allo stadio di Federazione Unitaria.
Il progetto in cui confluivano le due sinistre sindacali (pur nella diversa cultura politica di ciascuna delle due e cui si aggiunse alla fine la Uilm di Benvenuto e Mattina) andava molto oltre i limiti di una maggiore carica rivendicativa ed aspirava a fare del sindacato il vero soggetto di trasformazione sociale del paese. Il sindacato basato sui consigli diventava, nelle teorizzazioni della sinistra sindacale, una sorta di contropotere istituzionale, la leva principale di una politica riformista. Erano gli anni in cui intellettuali della sinistra socialista come Andrè Gorz, Lelio Basso, Serge Mallet, Oskar Negt ed altri, teorizzavano la fuoruscita dal capitalismo attraverso una sorta di riformismo rivoluzionario, che combinava l’azione parlamentare ed istituzionale con la pressione dei movimenti sociali, in primo luogo nei posti di lavoro. Una sorta di “presa di potere” dal basso che non aveva bisogno di una rivoluzione violenta, recuperando parzialmente temi cari all’anarcosindacalismo.
Nella versione della sinistra sindacale italiana, questo assumeva la forma di un blocco sociale riunito intorno al sindacato soggetto direttamente politico e non solo rivendicativo, che aveva la sua punta di lancia nelle categorie dell’industria
(come si vede, Landini non ha inventato nulla e la Camusso semplicemente ignora questa storia).
I partiti si divisero fra quanti (destra Dc, Psdi, Psi, Pli, e, manco a dirlo, fascisti) deprecarono questa “deriva politica” del sindacato e quanti (sinistra Dc, Psi e Pci) guardavano alla triplice Cgil-Cisl-Uil come alla loro principale base di massa e ne difendevano ruolo e richieste. Questo ufficialmente, perché in realtà non mancavano affatto diffidenze e critiche al “pansindacalismo” della triplice (in particolare della destra amendoliana del Pci, ma anche della corrente demartiniana e nenniana del Psi, ed anche in settori della sinistra Dc come la “Base”). Ad essere più aperti, in realtà, erano la sinistra ingraiana del Pci e quella lombardiana del Psi.
Non c’è dubbio che quella fu la stagione più brillante del sindacato italiano, quella delle maggiori conquiste contrattuali e legislative.
Tuttavia, al declino di quell’ esperienza contribuirono tre fattori decisivi: il processo di burocratizzazione del sindacato (cui non fu estranea la stessa sinistra sindacale), la saldatura del ceto politico nella solidarietà nazionale (che rappresentò il ritorno pieno al predominio della politica istituzionale ed alla subordinazione ad esso del sindacato) ed il riflusso delle lotte, favorito dalla sciagurata avventura terroristica (che privò il sindacato del suo principale potere contrattuale).
Dopo, il sopravvenire delle delocalizzazioni e gli incalzanti processi di globalizzazione fecero il resto, relegando il sindacato nella posizione subalterna che conosciamo. E lo scioglimento della Federazione e delle strutture unitarie. Come la Flm, nel 1984, furono la sanzione della fine del progetto di un sindacato soggetto politico.
Ma in tutto questo, un peso lo ebbero anche le insufficienze politiche e culturali della sinistra sindacale che dimostrò la sua inadeguatezza proprio nel momento in cui i suoi maggiori esponenti (Macario, Benvenuto, Carniti e Trentin) giunsero al vertice delle rispettive confederazioni, ma senza produrre alcun cambiamento di linea, ma appiattendosi sulla consueta routine.
In particolare, la sinistra Cisl si dissolse e, andata al “potere” nella Confederazione con Macario e Carniti, divenne la prima sostenitrice delle politiche di contenimento salariale (decreto dello 0,1% e taglio dei punti della scala mobile con il decreto Craxi) e chi non si adeguava (come la Fim Cisl milanese di Tiboni) verrà espulso proprio dagli ex alfieri della sinistra Cisl.
Il declino nella Cgil fu più lento e, dopo una infelicissima proposta di democrazia industriale (un pasticcio iperburocratico battezzato “piano d’impresa”), la sinistra interna ripiegò sulle sue categorie (in particolare la Fiom) cercando di caratterizzarsi per qualche accenno rivendicativo in più.
In realtà, la sinistra sindacale fu sconfitta dalla sua lentezza nel capire i mutamenti in atto e, di conseguenza, nella scelta di una tattica idonea a farvi fronte e questo dipese in larga parte dalle insufficienze costituzionali alla cultura sindacale, per sua natura parziale e inidonea ad un ruolo di direzione politica.
Che il sindacato possa caratterizzarsi come soggetto politico può tranquillamente accadere, che possa svolgere un ruolo di unificazione sociale è decisamente auspicabile, ma assumere un ruolo di direzione politica è molto di più che questo. E, infatti, la sinistra sindacale, giunta al vertice delle confederazioni, si dimostrò non in grado di guidarle su una linea diversa e fallì nel suo compito.
La cultura del conflitto è un elemento necessario ma non sufficiente, per un vero ruolo di direzione politica, occorre una cultura delle istituzioni, una visione strategica, una capacità di elaborare una politica internazionale che sono estranee alla pratica sindacale. Alla sinistra sindacale mancò la necessaria sponda politica (che peraltro non cercò) che può essere assicurata solo da un partito politico in grado di rapportarsi ai movimenti.
La sinistra sindacale è una articolazione necessaria ma non sufficiente nella costruzione di una nuova sinistra all’altezza dei tempi. Ed il primato del sociale sulla politica è solo una leggenda.
Forse è il caso di rifletterci oggi, di fronte a questa riproposizione povera della sinistra sindacale.
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